Per perdere la pazienza, in rapida sequenza, sia il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini e sia il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, questa volta al Corriere della sera l’hanno fatta proprio grossa.
Infatti, sul Sole 24 Ore di ieri, Orsini ha dichiarato che “apprendo da qualche testata giornalistica che le garanzie di Stato potrebbero essere un ulteriore problema per la spesa pubblica nel nostro Paese. È un provvedimento che ha permesso di erogare 250 miliardi, ci risulta che ne siano rimasti 100 da restituire, che le imprese stanno regolarmente pagando e il rischio di default è residuale”.
E sul Sole di oggi, Patuelli ha rincarato la dose, aggiungendo che “ha ragione il presidente di Confindustria Emanuele Orsini sull’importanza delle garanzie a sostegno delle imprese”. E, qualora il messaggio non fosse sufficientemente chiaro, è stato riportato un passaggio della nota di Orsini (“…quando leggo certe notizie dico: attenzione perché non è così…”).
Il riferimento è chiaro e punta a quanto pubblicato sul Corriere della Sera di sabato.
Dove si legge che sui conti dello Stato incombe “una cambiale da 300 miliardi” che potrebbe avere le sembianze di un “fantasma” legato alla garanzia da 300 miliardi concessa a favore di piccole e medie imprese sui prestiti erogati dalle banche durante la pandemia. E, per chi non fosse spaventato a sufficienza, si parla di “una cifra mostruosa ereditata dagli anni del Covid” che potrebbe generare “un film dell’orrore che il Ministero dell’Economia si augura che non vada mai in onda”.
L’autore Francesco Verderami sostiene che presso le banche si sarebbe “accesa una luce rossa” perché incerte sui tempi di rientro di tali prestiti e, di conseguenza, dubbiose sulle capacità dello Stato di “far fronte alle richieste” di onorare la garanzia. Quel che è peggio è che “non è dato sapere al momento a quanto possa ammontare l’effetto del decreto sulle casse pubbliche e se le riserve accantonate da Mediocredito Centrale e Sace siano sufficienti a coprire gli eventuali mancati pagamenti”.
In questo caso, le banche “iscrivono il credito, girandolo sullo Stato” (stendiamo un velo pietoso sulla forma…), perché in ultima istanza toccherebbe all’Economia pagare” e, in quel caso, “Giorgetti non sa da quale parte voltarsi”.
Tranquillizziamo subito i lettori: è tutto falso, per tabulas. Ed Orsini ha giustamente perso le staffe.
Infatti, se Verderami avesse avuto la pazienza di documentarsi e leggersi il Rapporto sulla stabilità finanziaria pubblicato da Bankitalia il 30 aprile scorso, avrebbe trovato scritto (in basso a pagina 22, così evita la fatica di cercarlo) che “…alla fine del 2023 era giunto a scadenza circa il 45 per cento dei prestiti assistiti da una garanzia pubblica rilasciata durante la pandemia (tra marzo del 2020 e giugno del 2022)”. Di conseguenza si è quasi dimezzato l’importo delle garanzie e del rischio a carico dello Stato. Trattandosi di prestiti con durata non superiore a 6 anni, ora siamo esattamente a metà strada.
È sempre Bankitalia a farci sapere che tale rischio resta contenuto perché “secondo informazioni fornite da Mediocredito Centrale, gestore del Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, a marzo del 2024 le escussioni dei prestiti garantiti sono cresciute rispetto a dicembre, ma rimangono inferiori agli andamenti osservati prima della pandemia.”
Inoltre il tasso di deterioramento di quei prestiti assistiti da garanzia pubblica è rimasto costantemente entro la media, seppure lievemente superiore a quello dei prestiti senza garanza e, in ogni caso, al livello più basso degli ultimi 15 anni. Insomma le imprese italiane stanno rimborsando i prestiti addirittura in anticipo, e le banche non hanno alcun bisogno di escutere la garanzia pubblica. Anzi, quei prestiti sono stati una vera e propria panacea per i loro conti, che hanno beneficiato di ricavi senza alcun rischio perché, nel peggiore dei casi, li avrebbe rimborsate il Mef.
Sempre Bankitalia nel rapporto del 29 aprile 2022 ribadiva che “alla fine dello scorso anno le società beneficiarie delle misure di sostegno al credito (prestiti garantiti e moratorie non ancora scadute) erano prevalentemente a basso rischio” e nel rapporto del 25 novembre 2022 aggiungeva che “la scadenza delle moratorie introdotte a seguito della pandemia e la graduale uscita dal periodo di preammortamento per i crediti assistiti da garanzia pubblica non si sono tradotte in un significativo aumento dei prestiti con difficoltà di rimborso”.
Ma se Verderami non avesse voluto addentrarsi in questa certosina analisi delle fonti, gli sarebbe bastato leggere l’articolo firmato da Laura Serafini sul Sole 24 Ore del 13 giugno scorso dove, seppure con un ritardo di quasi due mesi rispetto alla pubblicazione del rapporto di Bankitalia, avrebbe potuto leggere anche solo il titolo (“garanzie prestiti Covid dimezzate, l’ammontare sceso a 100 miliardi”). Ma evidentemente, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.
La foga denigratoria non ha avuto nemmeno pietà dei numeri perché, come ci ricorda sempre Bankitalia, “Dall’inizio della pandemia alla fine del primo semestre di quest’anno (2022 ndr), i prestiti erogati alle imprese con il supporto di garanzie pubbliche ammontavano a circa 268 miliardi, riconducibili per oltre il 90 per cento ai programmi introdotti con la crisi e condotti dal Fondo centrale di garanzia (FCG).” Poiché la garanzia era del 90% e 100%, per prestiti rispettivamente superiori o inferiori a €30.000, l’importo della garanzia pubblica non è mai stato superiore a 210/220 miliardi, a cui si aggiungono i 28 miliardi erogati da Sace, entrambi ora ridottisi all’incirca alla metà. Quindi molto meno dei 300 miliardi sbandierati dal Corriere.
L’allarme lanciato sabato è infondato anche per un altro motivo. Infatti il bilancio statale ha già previsto, anno dopo anno, gli accantonamenti per eventuali perdite. Sono talmente prudenziali rispetto a quanto lo Stato sta effettivamente rimborsando alle banche che, se proprio ci dovesse essere un effetto sui conti pubblici, dovrebbe essere di segno positivo. Un grattacapo in meno per Giancarlo Giorgetti.
SI tratta solo dell’ultimo episodio di una maldestra operazione di auto sabotaggio dei conti dello Stato, proprio in coincidenza col tornante decisivo dell’avvio del negoziato con la Ue sul percorso di consolidamento fiscale, peraltro in ossequio a fallimentari regole semplicemente da abolire. Qualche giorno fa era stato Federico Fubini a parlare di “titoli italiani che tremano più di quelli francesi”. Salvo essere clamorosamente smentito prima dai dati e poi da un gestore di un grande fondo d’investimento citato da Bloomberg per sottolineare che i fondamentali (crescita, debito estero e privato) per l’Italia siano nettamente migliori di quelle francesi.
Si vorrebbero spaventare i mercati, sperando che questi ultimi riescano a disciplinare il governo. Ma gli investitori leggono i dati, riconoscono le bufale e continuano a comprare Italia.