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Ecco come e perché la Germania mette i bastoni fra le ruote anche alle aziende italiane

Gli effetti della legge che rende le aziende tedesche responsabili di abusi, lavoro minorile e condizioni di lavoro disumano lungo tutta la catena di approvvigionamento. E tale responsabilità coinvolge le ditte tedesche anche se tali soprusi si verificano in aziende fornitrici di subappalto.

 

Le prime a finire sotto la lente d’ingrandimento delle autorità di controllo sono stati due colossi del calibro di Ikea e Amazon. Le due aziende sono state denunciate da un gruppo di organizzazioni per i diritti dell’uomo al Bundesamt für Wirtschaft und Ausfuhrkontrolle (Bafa), letteralmente l’Ufficio federale per gli affari economici e il controllo delle esportazioni. È l’organo a cui, dalla sede centrale di Eschborn alle porte di Francoforte, è stato assegnato il compito di verificare l’osservanza delle norme della Lieferkettensorgfaltspflichengesetz (LkSG). Dietro questa ennesima parola di 35 lettere del vocabolario tedesco si nasconde la legge che rende le aziende tedesche responsabili di abusi, lavoro minorile e condizioni di lavoro disumano lungo tutta la catena di approvvigionamento. E tale responsabilità coinvolge le ditte tedesche anche se tali soprusi si verificano in aziende fornitrici di subappalto.

La legge è entrata in vigore all’inizio dell’anno. Tempo qualche mese e sono scattate le prime denunce. Di sicuro i colossi svedese e americano avrebbero fatto volentieri a meno di segnare anche questo record. Tra le accuse delle organizzazioni – per la cronaca l’European Center for Constitutional and Human Rights (Ecchr) e Femnet – c’è quella che i rivenditori non hanno firmato il cosiddetto Bangladesh Accord, un accordo finalizzato a migliorare la sicurezza nelle fabbriche tessili del paese asiatico. Inoltre, nelle fabbriche che riforniscono Amazon e Ikea sarebbero state riscontrate carenze nella sicurezza e violazioni del diritto del lavoro.

Se la Bafa dovesse riscontrare una violazione, per le due aziende coinvolte potrebbe diventare molto costoso. La legge prevede multe fino al due per cento del fatturato annuo mondiale. Per Ikea, questo limite sarebbe di circa 800 milioni di euro, mentre per Amazon, in casi estremi, si potrebbe arrivare fino a dieci miliardi di euro.

Ecchr e Femnet hanno presentato la denuncia insieme al sindacato National Garment Workers Federation (Ngwf) del Bangladesh. Durante una ricerca condotta lo scorso marzo, Ngwf aveva riscontrato carenze in materia di sicurezza, come la mancanza di ispezioni, e violazioni dei diritti del lavoro, come la mancanza di libertà sindacale nelle fabbriche. Da qui la denuncia: d’altronde la legge sulla catena di fornitura obbliga anche le aziende con più di 3.000 dipendenti in Germania a rispettare i diritti dei lavoratori lungo la propria supply chain.

Fino a qualche tempo fa le conseguenze della nuova legge erano rimaste confinate al dibattito interno in Germania, ma ora ci si è resi conto della dimensione internazionale della vicenda. Anche in Italia, dove il Sole 24 Ore ha recentemente riportato le preoccupazioni per le imprese emiliano-romagnole espresse da Michele Bulgarelli, segretario della Cgil di Bologna. “Che si parli di meccanica, penso nell’automotive e ai gruppi Volkswagen, Bmw, Deimler o di agroalimentare, con big della grande distribuzione come Lidl e Aldi, ma anche di chimica o tessile, sono migliaia le nostre imprese che dovranno adeguarsi alle nuove regole sul rispetto dei lavoratori e dell’ambiente”, ha detto Bulgarelli al quotidiano economico.

E il discorso non riguarda naturalmente solo l’Emilia-Romagna. Basta guardare ai numeri dell’interscambio con la Germania, degli stretti rapporti societari e dell’intersezione tra la filiera italiana e le industrie tedesche in quasi tutti i settori per comprendere l’impatto della legge tedesca sull’economia italiana. E sulla gestione burocratica delle aziende, le quali – esattamente come le loro controparti tedesche – dovranno stilare rapporti continui per certificare di non infrangere le leggi sull’inquinamento, non aggirare le norme a tutela del lavoro minorile, di corrispondere salari equi, di assicurare i diritti sindacali e di non operare discriminazioni di alcun genere. La geografia industriale dell’Italia indica che il problema riguarda soprattutto il Nord, dove le quote di export verso la Germania oscillano dal 13-14% di Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto fino al 25% del Trentino-Alto Adige.

L’adeguamento è inevitabile, anche perché una legge simile, dai contorni ancor più restrittivi, è in discussione al parlamento europeo e non tarderà a vedere la luce.

Ma anche in Germania, dove pure si sono anticipati i tempi, le imprese non sono arrivate ben preparate all’appuntamento con l’introduzione delle norme. A gennaio, mese dell’entrata in vigore della legge, uno studio sulla sua attuazione nelle aziende tedesche realizzato dall’Associazione per la gestione dei materiali, gli acquisti e la logistica (Bme) rivelava che solo il 4% di esse riteneva di essere “molto preparata” a livello organizzativo, mentre il 70% si considerava “appena sufficientemente”, “poco” o “molto poco” preparata.

In particolare, la risposta alla domanda “in che misura le aziende hanno chiarezza sui loro fornitori diretti” veniva definita dai ricercatori sconfortante: solo il 13% delle aziende con più di 1.000 dipendenti dichiarava di avere sotto controllo la situazione dei fornitori rispetto a rischi come possibili violazioni dei diritti umani.

A distanza di sei mesi non si sa quanto le cose siano migliorate. L’Università di Ansbach ha messo in piedi un nuovo studio, i cui risultati saranno disponibili nel prossimo autunno. Stefanie Fehr, che coordina il lavoro, ha rivelato già una tendenza dopo le prime valutazioni: “Dimostra che le aziende che hanno implementato processi con strumenti digitali hanno maggiori probabilità di soddisfare i requisiti di legge”.

Finora sono coperte dalla nuova legge le aziende con più di 3.000 dipendenti. Il 1° gennaio 2024 il campo di applicazione sarà notevolmente ampliato. A quel punto, anche le aziende con più di 1.000 dipendenti saranno obbligate a istituire un sistema di gestione per il rispetto dei diritti umani e degli obblighi di due diligence ambientale per la propria area di attività, per i fornitori diretti e per l’intera catena di fornitura.

La legge era stata elaborata in piena atmosfera bipartisan dall’ultimo governo di Grosse Koalition guidato da Angela Merkel. Autori: l’allora (e attuale) ministro del Lavoro Hubertus Heil (Spd) e il suo collega di quei tempi alla Cooperazione e Sviluppo economico Gerd Müller (Csu). Obiettivo: stanare le irregolarità che si annidano nelle attività delocalizzate all’estero, specialmente nei paesi in via di sviluppo. Il motivo per cui il governo di Merkel decise di accelerare i tempi fu che l’autoregolamentazione non aveva funzionato. Le imprese tedesche si erano infatti verbalmente impegnate a controllare volontariamente il rispetto dei diritti umani e delle condizioni di lavoro nelle aziende delle filiere, ma nella realtà questo non era avvenuto.

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