Con la fusione tra il colosso dell’acciaio giapponese Nippon Steel e il gemello americano US Steel varata lunedì nasce il secondo polo mondiale dell’acciaio, che surclassa l’euro-indiana ArcelorMittal collocandosi subito dietro la vetta dove troneggia la cinese Baowu Steel. Ecco cosa scrive Bloomberg di un’operazione che non ha mancato di fare alzare qualche sopracciglio per il passaggio in mani straniere di un’icona dell’industria a stelle e strisce.
L’ACCORDO TRA NIPPON STEEL E US STEEL
È con l’acquisizione di US Steel per un valore di 14.1 miliardi di dollari che Nippon Steel si afferma come il secondo produttore di acciaio al mondo e il più grande fuori dalla Cina, con la prospettiva di accrescere il proprio ruolo rifornendo le industrie e i produttori di auto americani.
L’accordo pone fine a mesi di incertezza su una vera e propria icona dell’industria a stelle e strisce che lo scorso agosto aveva rigettato una analoga ma assai meno consistente offerta avanzata dalla rivale Cleveland-Cliffs.
L’OFFERTA
Quella fatta da Nippon Steel supera abbondantemente i 7,25 miliardi offerti allora da Cliffs e rappresenta un premio di ben il 142% sul valore delle sue azioni. Da segnalare il ruolo svolto nell’operazione dalle banche City Group, in quanto consigliere finanziario di Nippon Steel, e da Barclay, Goldman Sachs e Evercore che hanno assistito US Steel.
I VANTAGGI
Per il più grande produttore di acciaio giapponese l’acquisizione comporta il mettere tutti e due i piedi in quell’industria americana dell’acciaio la cui domanda interna è destinata a beneficiare dell’aumento della spesa in infrastrutture.
La compagnia giapponese centra dunque il suo obiettivo di trovare Oltreoceano fonti di crescita nel momento in cui la domanda interna rallenta, lo yen si indebolisce e la competizione in Asia si fa serrata.
DALLA FUSIONE DI NIPPON E US STEEL, SECONDO POLO AL MONDO DELL’ACCIAO
Con questo accordo, sottolinea Bloomberg, nasce un colosso dell’acciaio con impianti ubicati a Osaka come in Pennsylvania e Slovacchia e che, con oltre 86 milioni di tonnellate di capacità, si proietta al secondo posto tra i big mondiali scavalcando l’europea ArcelorMittal e posizionandosi a un gradino dalla vetta occupata dalla azienda cinese di Stato Baowu Steel.
LO STUPORE DEGLI ANALISTI
Nel valutare l’operazione, gli analisti hanno rilevato come l’offerta di Nippon Steel fosse superiore rispetto alle aspettative di mercato. Secondo Phil Gibbs di Keyban Capital Markets quei 14,9 miliardi sono “ben al di sopra” delle stime fatte dagli operatori, mentre per Timna Tanners di Wolfe Research quella giocata da Nippon Steel è stata una “wild card”.
FINE DI UN’ERA
L’operazione di Nippon Steel segna la fine di un’era per l’industria americana all’interno della quale US Steel, nata nel 1901 dopo la fusione degli asset di J. Pierpont Morgan con quelli di Andrew Carnegie, occupava un posto non solo simbolico.
Il gruppo aveva recentemente intrapreso un nuovo corso sotto la guida del ceo David B. Burritt che ha riorientato gli investimenti verso impianti più moderni e meno inquinanti. Di US Steel si era preso a parlare lo scorso agosto quando fu rivelato il suo rigetto dell’offerta di Cliffs e l’avvio di una strategic review che aveva dato il la a molte speculazioni.
PASSAGGI FORMALI
La fusione richiede ancora due passi formali come l’approvazione da parte degli azionisti di US Steel e quella delle autorità regolatorie che includono l’occhiuto Committee on Foreign Investments in the US (CFIUS) sul cui pronunciamento il vicepresidente esecutivo di Nippon Steel, Takahiro Mori, si dice tuttavia fiducioso sottolineando le solide relazioni tra Giappone e Usa.
Ciononostante non sono mancati in America esponenti politici che hanno denunciato il passaggio in mani straniere di un’industria simbolo dicendosi anche preoccupati delle conseguenze sui lavoratori.
RASSICURAZIONI
Nippon Steel ha tuttavia rassicurato i sindacati con scelte come il mantenimento del nome originale della compagnia americana e del suo quartier generale di Pittsburgh, ma anche con l’impegno a onorare tutti gli accordi presi con i rappresentanti dei lavoratori dal precedente management.