Skip to content

Energia

Mcc, le privatizzazioni e le porte girevoli fra Tesoro e banche d’affari

Il caso Mediocredito centrale (Mcc) fra storia e cronaca. L'approfondimento di Giuseppe Liturri

 

Il periodo in cui si è svolta la lunga sequenza di privatizzazioni delle imprese di proprietà dello Stato – che ha largamente coinciso con l’incarico di Mario Draghi nel ruolo di direttore generale del Tesoro – riserva ancora sorprese. Un incarico durato poco più di dieci anni, che vanno dal 17 gennaio 1991 al 7 settembre 2001, in cui Draghi in quel ruolo tecnico è stato l’esecutore di una volontà politica quasi unanime nel sostenere che, per centrare l’obiettivo dell’ingresso nell’euro, bisognasse vendere la gran parte delle partecipazioni societarie dirette e indirette (tramite l’IRI) del Tesoro.

Finirono così sul mercato prima le banche (nel 1991 le banche pubbliche rappresentavano il 73% del totale delle banche italiane) e poi quote rilevanti di tante società tra cui ENEL, ENI, Telecom, Finmeccanica, ecc… per un incasso complessivo di circa 110 miliardi di euro.

Una di queste operazioni – in verità non una delle più grandi –  fu la privatizzazione del Mediocredito Centrale (Mcc), avvenuta nel 1999. Con riferimento ad essa, abbiamo recentemente avuto accesso a documenti riservati da cui emerge una circostanziata e puntuale evidenza del fatto che quella stagione e, di riflesso i suoi decantati protagonisti, meriti ancora una lettura critica approfondita e offra importanti lezioni per il futuro.

Prima di entrare nei dettagli, va notato che le (poche) critiche alla stagione delle privatizzazioni si sono concentrate, nel merito, sulla convenienza per lo Stato di alcune dismissioni e, nel metodo, sul ruolo di netto predominio della struttura tecnica del Tesoro – priva di legittimazione democratica, ma di fatto sede di decisioni di rilevanza politica – di cui Draghi e il suo vice (con delega alle privatizzazioni) Vittorio Grilli sono stati a lungo gli indiscussi vertici.

Circa la convenienza, il caso del Banco di Napoli venduto – dopo essere stato ripulito di € 6 miliardi di sofferenze – alla BNL per 32 milioni e rivenduto a distanza di pochi anni per 1.000 milioni, costituisce un esempio clamoroso.

Numerose critiche hanno riguardato anche il ruolo di consulenti del Tesoro ricoperto dalle grandi banche d’affari anglosassoni come Goldman Sachs, JpMorgan, Credit Suisse First Boston, Morgan Stanley, Merril Lynch. Esse incassarono commissioni intorno al 1% del controvalore delle operazioni, circa 1,1 miliardi di euro. Ma non solo. Come rilevato dalla Corte dei Conti nel 2012, “in alcuni dei casi esaminati (Telecom, Enel) si è avuta la conferma di una tendenza del Comitato ad avvalorare il parere già espresso dai consulenti dell’amministrazione, finendo con l’assumere un ruolo quasi formale, senza svolgere sempre quella funzione incisiva di indirizzo che il quadro normativo gli attribuisce”. Insomma, troppa accondiscendenza del Tesoro rispetto alle valutazioni degli advisor che finirono con l’assumere un ruolo debordante rispetto ai limiti propri di un rapporto di consulenza a favore di una struttura tecnica e non politica, come la Direzione guidata da Draghi.

Un altro aspetto criticato è stato quello dell’intenso traffico attraverso le “porte girevoli” che ci sono tra le banche d’affari e i loro clienti, soprattutto i Governi. Con riferimento a Draghi, il 28 gennaio 2002, solo pochi mesi dopo aver lasciato il Tesoro, Goldman Sachs dette l’annuncio della sua assunzione come managing director e vice presidente per l’Europa, dove rimase fino al 2005. Nel 2000 Grilli passò a Credit Suisse per una breve esperienza, al termine della quale assunse la guida della Ragioneria Generale dello Stato e nel 2014 assunse un prestigioso incarico in JP Morgan.

Nel 2005, alla vigilia della nomina di Draghi a governatore di Bankitalia, le porte girevoli entrarono nel mirino dell’ex ministro del bilancio Paolo Cirino Pomicino che, scandalizzato, fece notare a Berlusconi che “Draghi venne assunto alla Goldman Sachs pochi mesi dopo che l’Eni, nel cui Cda lui sedeva come rappresentante del Tesoro, aveva venduto il suo immenso patrimonio immobiliare proprio a un fondo legato a quella banca d’affari”.

Le critiche di cui qui intendiamo darvi conto, relativamente alla vicenda Mcc, ruotano intorno agli stessi aspetti: ruolo debordante degli advisor e opacità e scorrettezza della procedura della loro nomina.

MCC nel 1999 era una banca in buone condizioni, presieduta da Gianfranco Imperatori poi scomparso nel 2009, focalizzata sul credito a medio-lungo termine per lo sviluppo degli investimenti. La classica banca di sviluppo a controllo pubblico che hanno tutti i Paesi, sul modello della Kfw tedesca. Fu aggiudicata alla Banca di Roma per 3.900 miliardi di lire al termine di una gara che vide tagliato fuori un consorzio di banche popolari che mirava ad acquistarne il 30%, collocando in Borsa la restante quota.

I giochi furono decisi proprio da un intervento degli advisor Credit Suisse FB e JP Morgan che il 14 ottobre 1999 comunicarono ai partecipanti alla gara che “verranno privilegiate le offerte che permettano la dismissione totale della partecipazione”, ponendo in subordine le offerte per quote inferiori.

La questione fu subito rimessa alla valutazione dell’autorevole studio legale Bonelli, Erede, Pappalardo che vergò un parere di fuoco, che abbiamo potuto leggere, sia sulla legittimità della nomina degli advisor e sia sul loro intervento per privilegiare alcuni offerenti.

In primo luogo, gli advisor non potevano essere incaricati per affidamento diretto ma andava esperita una gara di appalto secondo la Direttiva comunitaria. “Sarebbe ravvisabile una violazione delle norme comunitarie in materia di appalto di servizi”, facevano notare i legali per poi aggiungere che l’esenzione dalla gara vigeva solo per i “servizi finanziari”, cosa ben diversa dal complesso servizio di consulenza di un advisor.

In secondo luogo, la scelta di privilegiare  le offerte globali rispetto a quelle parziali “non è contenuto nel decreto di privatizzazione, né nel bando di gara” e quindi, concludevano i legali, “il ministero del Tesoro (e di riflesso i consulenti) ha alterato in modo non trascurabile le condizioni fissate nel decreto di privatizzazione e nel bando di gara, esorbitando probabilmente dal proprio campo di competenza e sostituendosi al Governo, nell’effettuare valutazioni strategiche ai fini della privatizzazione”.

Di queste considerazioni c’è traccia anche in una interrogazione parlamentare che fu presentata pochi giorni dopo in Senato. Si evidenziava il rischio che l’advisor “esorbiti dal campo suo proprio e si sostituisca surrettiziamente alle scelte che appartengono al Governo” e che quell’intervento a partita in corso impedisse la determinazione trasparente del prezzo di MCC tramite il mercato e affidasse a una trattativa privata la cessione di una banca pubblica. “Un unicum nella storia del Paese”, si sottolineava nel documento.

Tutto invano. Al presidente Imperatori restò la magra consolazione di una imbarazzata telefonata in cui Giuliano Amato, ministro del Tesoro all’epoca, commentò: “Hai visto? Geronzi si è dovuto indebitare per comprarti!”

Nel frattempo gli advisor brindavano all’ennesimo affare andato in porto.

Non sappiamo se ci siano da raccontare altre vicende simili relative a quella stagione. Ci auguriamo solo che, alla vigilia di un altro periodo di scelte importanti per il futuro dell’Italia, ci sia il coraggio di riflettere su una stagione caratterizzata da una clamorosa compressione della responsabilità politica a favore di decisioni assunte da tecnici, peraltro privi di legittimazione democratica.

La stagione del PNRR sembra avere una fortissima somiglianza con quel periodo, ammantata com’è dalla stessa pericolosa retorica che va sotto il nome di “ce lo chiede l’Europa”.

Osiamo sperare che la politica abbia la forza di far prevalere l’interesse nazionale e i tecnici facciano… i tecnici.

Torna su