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Quota 100

Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile

L'articolo dell'editorialista Giuliano Cazzola

È intitolato ‘’Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile’’. Ne sono autori Tiziano Treu, presidente del Cnel, già ministro e parlamentare insieme con due giuslavoristi della ‘’generazione di mezzo’’: Bruno Caruso e Riccardo Del Punta. Come scrivono, nell’introduzione, l’idea di presentare un testo con delle proposte relative ai principali problemi che i cambiamenti sociali ed economici pongono al diritto del lavoro era venuta agli autori circa un anno fa; ma mentre il manifesto era già in fase di avanzata lavorazione il mondo (non solo quello del lavoro) era stato preso in contropiede dalla pandemia e dalle risposte che i governi, nel bene come nel male, avevano adottato per contenere e superare la crisi sanitaria. Più che un incidente su di un percorso rettilineo il virus ha imposto l’esplorazione di un ‘’passaggio a nord-ovest’’ dallo sbocco incerto non solo sul quomodo ma sullo stesso an.

L’impatto stravolgente che la pandemia ha avuto, e promette ancora di avere per chissà quanto tempo, sugli assetti economici e sociali e sulle vite di tutti noi, ha indotto i giuslavoristi a interrogarsi sull’attualità delle riflessioni che stavamo mettendo a punto. La risposta a cui sono pervenuti è stata affermativa, sia pure accompagnata dalla riserva esplicita di aggiornare l’analisi in rapporto allo sviluppo (o all’inviluppo) dell’emergenza sanitaria e dei sui effetti sull’economia. Del resto, da persone positive i giuristi non condividono la dimensione escatologica che, in certi ambienti, viene attribuita alla pandemia. Insomma, la storia non finisce con il virus. E neanche il diritto del lavoro. Il presupposto del Manifesto poggia su di una considerazione ormai acquisita da gran parte della cultura giuslavoristica: ‘’ La regolamentazione del rapporto di lavoro nel Novecento poggiava le sue basi su concetti olistici e compatti, quali subordinazione e autonomia, cui corrispondevano, a loro volta, connessioni precise e non sovrapponibili con le istituzioni del mercato del lavoro e del welfare.

Oggi, invece, i tradizionali confini tra lavoro subordinato e autonomo trovano sempre meno corrispondenza nella realtà effettuale dei modi di lavorare, nei termini sia di un’autonomizzazione “di fatto” di molti rapporti di lavoro subordinato che di condizioni di dipendenza e debolezza afferenti a molti rapporti formalmente autonomi’’. Ma il nuovo che avanza – sottolineano gli autori – non riguarda soltanto le fattispecie e i loro nessi con le discipline, bensì quello che accade nel cuore della struttura obbligatoria del contratto di lavoro subordinato, anche qui come conseguenza ultima di processi di trasformazione dei sistemi organizzativi e produttivi, in buona parte legati alla crescente adozione di tecnologie. Il concetto guida dovrebbe essere quello che il lavoratore subordinato collabora alla realizzazione degli scopi produttivi dell’impresa e alla gestione efficiente e competitiva della stessa, a fronte di retribuzione e sicurezza della persona, ma anche, più ampiamente, di un pieno “riconoscimento” del suo ruolo essenziale nell’attività di impresa e della conseguente valorizzazione delle sue competenze e capacità. In questo modo la nuova causa “collaborativa e partecipativa” del contratto di lavoro subordinato risulterebbe dalla condensazione concettuale di precise realizzazioni normative tese a valorizzare il lavoratore e a promuovere una visione nuova del rapporto, nella quale il conflitto non sparisce ma diviene soltanto la risorsa di ultima istanza.

Quanto poi alla rivoluzione digitale essa ‘’rappresenta, in tutta la sua formidabile trasversalità e capillarità, lo sfondo ineludibile di qualunque progettazione del diritto del lavoro del futuro. Non esiste o quasi istituto lavoristico, o prassi gestionale o anche sindacale, che non ne possa essere coinvolto. Più in generale si pone il problema se l’algoritmo e i big data costituiscano soltanto una diversa modalità tecnologica di organizzazione, assoggettamento e/o di sostituzione del lavoro umano; ovvero se diano luogo, in prospettiva, a una nuova formazione sociale che trascenda il capitalismo stesso come lo si è sinora conosciuto, con quel che questo significa in termini di più radicale rifondazione del paradigma giuslavoristico e della regolazione che ne deriva’’. Non c’è dubbio, anzitutto, che il diritto del lavoro del futuro dovrà continuare – secondo i giuslavoristi – a tutelare il lavoratore – in particolare subordinato, ma non solo ormai – dalla disparità di potere contrattuale inerente alla relazione di lavoro e dai rischi della mercificazione e dello sfruttamento. Di questa protezione, fatta di divieti e limiti imperativi, il lavoratore continua ad aver bisogno a fini di contenimento del dominio datoriale e di salvaguardia dei suoi beni fondamentali.

Nel contempo, ma in questo caso anche nell’accezione più ampia di diritto del welfare (comprensivo del reddito di cittadinanza o forme equipollenti), il diritto del lavoro deve assolvere una funzione di sostegno economico e possibilmente di redistribuzione, che faccia da contrappeso alle tendenze globali che registrano, soprattutto nei paesi più sviluppati un incremento esponenziale delle diseguaglianze. Queste non hanno risparmiato, come è noto, i ceti medi, ma di esse le vittime più esposte sono stati i lavoratori più poveri, molti dei quali immigrati: lavoratori variamente presi nelle trappole della precarietà; braccianti agricoli; lavoratori domestici; tutti i lavoratori in nero, presenti soprattutto al Sud. Gli autori, peraltro, avvertono l’esigenza di schierarsi nel dibattito aperto e sono consapevoli (ma non pentiti) che ai fautori del “nulla sarà (rectius, dovrà mai essere) più come prima” la lettura del manifesto suonerà sconfortante. ‘’Per noi essa apre, al contrario, significative opportunità.

Le ipotesi interpretative che ci sembrano più convincenti sono, infatti, quelle che sottolineano come la crisi pandemica verrà a comportare un’accelerazione, certamente drammatica, di processi di trasformazione economico-sociale che erano, dove più dove meno, già in corso’’. ‘’Due elementi – aggiungono – bastano a confortarci su questo: il primo è che il principale motore dei suddetti processi sarà certamente rappresentato dalle tecnologie digitali, il cui peso economico-sociale uscirà ulteriormente potenziato dalla crisi in atto; il secondo è che la principale risposta sistemica ai nuovi stati di cose dovrà ruotare attorno al verbo della “sostenibilità”, che è sempre stato cruciale sin dall’idea originaria di questo Manifesto. Pertanto il nodo vero resta quello di come porci, prima e dopo l’emergenza, di fronte a quei processi di trasformazione, al fine di provare a orientarli in senso positivo e, nel contempo, di gestire, sin dove possibile, i rischi che essi comportano.

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