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L’ennesima legge di bilancio che non aiuta (veramente) le donne

La legge di bilancio continua a puntare su misure frammentate e assistenziali, senza affrontare in modo strutturale le disuguaglianze che tengono le donne ai margini del lavoro e dell’autonomia economica. L’intervento di Alessandra Servidori

 

Il testo della legge di Bilancio con il maxi emendamento ha imboccato la strada per essere approvato ed evidenziare le questioni legate alla situazione femminile è a dir poco fondamentale, cominciando dalla consolidata scelta, purtroppo, di una politica legata ai bonus che abbiamo già visto in passato e che non affronta in modo sistemico la fragilità della questione sociale, lavorativa ed economica della popolazione femminile. La parità effettiva tra uomini e donne rimane appunto una enunciazione nominale, aspettativa delusa nei fatti, con provvedimenti assistenziali annuali agganciati sempre alla rimodulazione dell’ISEE, con detrazioni per il coniuge a carico, maggiorazioni se si ha in casa un over 65, con altre prestazioni esenti da imposte e il cambio della scala di equivalenza, cioè i coefficienti che rapportano il reddito complessivo al nucleo familiare e dunque alle famiglie più numerose.

Il calcolo ISEE modifica e aumenta le risorse per l’asilo nido, rette, assistenza familiare, bonus nuovi nati, assegno universale: in buona sostanza le agevolazioni ISEE irrobustiranno il miliardo e 600 milioni destinati alla famiglia, ma non incentivano per nulla l’occupazione femminile, che rimane sempre troppo bassa.

La certezza è dunque che la cultura politica italiana preferisce lasciare alla popolazione femminile il carico di un welfare dei servizi ancora molto fragile e affidato al volontariato delle donne, che non possono cercare lavoro dovendo occuparsi della famiglia e degli anziani sempre più ultraottantenni e non autosufficienti. E non è una percezione: è una realtà con la quale la politica non fa i conti, a cominciare dalla legge sulla non autosufficienza, che rimanda il concreto intervento sui territori.

La dinamica dei tassi di occupazione femminile per classi di età mostra un cambiamento strutturale nella permanenza delle donne più mature (50-64 anni) nel mercato del lavoro, con un aumento negli ultimi venti anni di circa 26 punti percentuali. Al contrario, nelle fasce di età più giovani (15-24 anni) diminuisce il tasso di occupazione di circa 6 punti, in coerenza con l’aumento dei livelli di istruzione e, in particolare, con la maggiore diffusione del conseguimento del diploma e della permanenza nei percorsi formativi, e guarda caso con l’età della fertilità e della possibile maternità. La marcata differenziazione tra ripartizioni territoriali non diminuisce nel corso del periodo. Nel Mezzogiorno il tasso di occupazione femminile risulta ancora molto penalizzato, con uno scarto rispetto al Nord d’Italia di oltre 24 punti percentuali.

Osservando poi sempre i dati del rapporto del CNEL incrociati con quelli di ISTAT, la distribuzione dell’occupazione femminile per posizione professionale (dipendenti e indipendenti) e per settore di attività economica, nel terzo trimestre 2025, si conferma il ruolo centrale del comparto dei servizi, nel quale è occupato oltre l’84% delle lavoratrici. Segue il settore industriale con circa 1,4 milioni di lavoratrici, dunque sempre destinate a lavori di basso reddito.

Veniamo alla questione della parità salariale, che a tutt’oggi non esiste. Poiché il divario, o differenziale, retributivo di genere è la differenza tra i compensi orari lordi di uomini e donne, ci si basa sugli stipendi versati direttamente ai dipendenti prima delle detrazioni fiscali e dei contributi previdenziali. Si osserva il rafforzamento del differenziale retributivo di genere conseguente al part-time, alle scelte professionali riferite al carico familiare, alla maggiore presenza femminile nei settori a bassa retribuzione, alla minore presenza di dirigenti donne, che risultano anche meno pagate, e soprattutto alla conversione del premio di produttività in quota di welfare aziendale.

Al di là di tante aziende che si definiscono family friendly, dobbiamo ricordare che il premio di produttività rappresenta la quota aggiuntiva alla retribuzione che viene riconosciuta ai/alle dipendenti al raggiungimento di incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione. Nell’ambito della struttura della retribuzione è la parte variabile del salario, solitamente oggetto di contrattazione di secondo livello: dunque, meno lavori e più sei assente per motivi di congedo, meno prendi in busta paga.

La già bassa occupazione femminile si riduce ulteriormente tra le mamme in modo direttamente proporzionale al numero di figli: una donna su cinque esce dal mercato del lavoro dopo essere diventata madre (cfr. Save the Children 2024). Tra le cause spiccano la scarsa offerta di servizi di cura per l’infanzia e l’impossibilità di conciliare il lavoro con la vita familiare, unite alla centralità del ruolo materno nella cura dei figli e al fatto che le carriere delle mamme sono frequentemente più instabili e peggio retribuite rispetto a quelle dei mariti o dei compagni, e quindi più sacrificabili di quelle dei padri.

Per favorire l’occupazione femminile, politiche finalizzate a rendere l’assistenza all’infanzia disponibile a prezzi accessibili e di alta qualità, unite a congedi paritari tra madri e padri e a politiche aziendali a favore della flessibilità lavorativa, consentirebbero alle madri e ai padri di conciliare più agilmente vita familiare e vita professionale. Il potenziamento dei servizi all’infanzia dovrà necessariamente riguardare varie età dei bambini, non solo il nido – che auspicabilmente dovrebbe essere disponibile a basso costo per tutte le famiglie su tutto il territorio nazionale – ma anche il tempo pieno nelle scuole, il doposcuola e proposte di servizi per la terza età e la non autosufficienza per chi lavora di notte e nel weekend.

La legge di Bilancio del 2026 non ce la fa perché deve rispettare le regole comunitarie sui livelli di spesa primaria, ma aspettare altri anni, e non pochi, per assestare le politiche economiche in favore dell’occupazione femminile significa superare la cultura predominante che obbliga le italiane a occuparsi principalmente della famiglia e significa predisporre un piano strutturale sistemico finanziato con il Piano Sociale Europeo, con risorse allocate attraverso una massiccia scelta di investimenti nei servizi e con un governo che adotti ampi spazi di manovra.

Per ultimo, ma volutamente sottolineato, come un non senso, non è comprensibile togliere alle donne la possibilità di scegliere Opzione Donna perché, pur sempre penalizzante dal punto di vista economico, rappresentava una via di uscita da una situazione gravosa. Finché non si risolve la questione pensionistica, anche con contributi figurativi per chi ha svolto lavoro di cura come caregiver familiare, la situazione rimane demoralizzante e discriminante.

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