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economia paziente

L’eccellenza non basta. L’economia paziente che serve all’Italia

“L’eccellenza non basta. L’economia paziente che serve all’Italia” di Paolo Manfredi letto da Augusto Bisegna

Per chi come me ama profondamente la provincia italiana e le aree interne, non fosse altro perché ha scelto di continuare a vivere in un paesino dell’entroterra abruzzese ai piedi del Monte Velino, Massa D’Albe, il libro di Paolo Manfredi, “L’eccellenza non basta. L’economia paziente che serve all’Italia” ed. Egea, offre, oltre che un’interessante analisi economica e sociologica (che partendo dall’Italia si estende alle aree interne della penisola), una chiave di lettura altra, fuori dalla retorica romantica e dello storytelling sulle potenzialità dei nostri territori, per proporre un “Piano B” per queste aree a lento spopolamento ed economia pressoché nulla, in un mondo che vive ormai in una “crisi permanete e che corre alla massima velocità”.

Viviamo in un Paese affaticato, che sembra “complessivamente inadeguato alla navigazione nei mari procellosi della contemporaneità”, così lo descrive nella prima parte del suo libro Manfredi. È anche il suo un viaggio tra mali e squilibri noti, ma mai risolti. Uno su tutti: la demografia impietosa che sta ridisegnando un paese meno popolato e di anziani. L’Italia è tra i primi paesi in Europa destinata a raggiungere un rapporto del 100% tra attivi e pensionati entro il 2050 ovvero un pensionato per ogni lavoratore. Una situazione che dovrebbe far tremare i polsi e a cui si aggiungono squilibri territoriali sempre più marcati e crescenti. Squilibri che oggi non si fermano più alla questione storica del Mezzogiorno, ma si estendono alle aree interne e a tanta provincia che sta scivolando inesorabilmente verso la periferia del mondo. Lo stravolgimento di alcune catene del valore, scrive Manfredi, mette in crisi ambiti produttivi consolidati della nostra economia, “senza che ne siano colte le opportunità di sviluppo o le alternative, che pure esistono.”  L’Italia, per quanto piccola e priva di materie prime, possiede infatti una “concentrazione unica di attrazioni naturali e culturali, prodotti, marchi e simboli fuori dall’ordinario”. Eccellenze che ci invidia il mondo intero ma che oggi a quanto pare viaggiano in maniera autonoma rispetto al Paese. Infatti “i frati sono ricchi ma il convento è povero.”

La crisi della classe media si è estesa fino a farsi crisi della medietà, scrive Manfredi. Una crisi che ha riverberi sul piano culturale, economico e produttivo.  In questo scenario la provincia italiana, da pilastro culturale ed economico, ha perso l’identità e l’importanza che ha avuto nel primo dopoguerra. “Oggi il problema non sono tanto le vere eccellenze, che fanno quel che devono, ossia eccellere, ma lo stato di salute di quel brodo di coltura da cui negli anni queste eccellenze sono emerse e che oggi è sempre meno vitale”. Non porsi collettivamente il problema significa segare il ramo dove si è seduti. Anche quella tenue speranza, che si era aperta di un post-Covid, che un modello di vita e lavoro più remotizzato e distribuito nel territorio, avrebbe in qualche modo rivalorizzato la nostra meravigliosa provincia e le are interne, non sembra essersi avverato. Perché nonostante il buon cibo, i rapporti sociali e il basso costo della vita, le persone per vivere in un luogo devono poter lavorare senza morire di fame e avere servizi. E quelle che oggi sono le aree interne e i loro borghi, nascevano essenzialmente attorno a un’economia agro-silvo-pastorale che ora non esiste più. Per questo, come scrive Manfredi, c’è la necessità, se si vuole uscire da questa marginalità, di affrontare seriamente il tema della modernizzazione e del modello di sviluppo. Ma se questo non parte dal lavoro la scommessa è persa in partenza. Proprio nel lavoro Manfredi trova la chiave di snodo fondamentale da cui può passare il rilancio della provincia. “È il lavoro che tiene insieme le comunità”, ne ha fatto e ne fa la fortuna. Le restanze, la paesologia romatica del poeta Arminio, l’antropologia militante, hanno senso “dove le persone ricavano da vivere dignitosamente anche nei luoghi disconnessi dai grandi flussi.” Ed ai fenomeni separatisti, conservativi e rivendicativi, l’autore antepone l’dea di provincia che deve trovare un ubi consistam stabilendo una relazione nuova e pragmatica, senza inutili campanilismi, rispetto all’economia immateriale. Non manca da parte dell’autore una critica al PNRR, troppo ingegneristico e burocratico nei processi che lo hanno generato. Dove manca l’assenza di  “processi strutturati e di ascolto e coinvolgimento dei stakeholder”. È mancata quella necessaria capacità di lettura granulare dei fenomeni, dei processi e dei bisogni dei territori, società e imprese ed è prevalsa una lettura stereotipata dell’Italia. Un “piano” di rilancio costruito non attraverso un programma consapevole, quanto piuttosto in “termini di superficie inclinata sulla quale scorrono le cose per inerzia, a partire dalla risorsa che negli ultimi anni ha assunto connotati quasi magici: il turismo. Certo, un importante voce del nostro PIL nazionale (dal 6% al 13% a seconda del perimetro considerato) ma che ha assunto nella vulgata comune i contorni di una apparente risorsa naturale che deve essere estratta e messa in evidenza per esercitare i suoi magici poteri senza tener conto del resto.

Ma è proprio cosi? L’autore mette in evidenza le carenze strutturali dell’industria turistica del Bel Paese e i danni da turismo selvaggio autofago che si mangia i territori che vende. Specchio per certi versi di una società “abbarbicata alla rendita”, dove il lavoro è marginale.

È la società signorile di massa – così ben rappresentata da Luca Ricolfi – e che trova nell’analisi di Manfredi, i medesimi freni alla nostra società e dove anche la scuola non è più in grado di intervenire positivamente su queste diseguaglianze.

E allora che si fa? L’autore nell’ultimo capitolo del libro delinea un “piano B” recuperando i territori che sono fuori dai grandi “flussi furiosi dell’economia”, per farli giocare dentro un campionato di serie B che comunque gli permetta di stare in partita e portare a casa il risultato. Fuori dalla metafora calcistica è quella che Manfredi chiama “economia paziente” . Un’economia che recuperi quel potenziale che ancora esiste e oggi non è espresso per mille motivi. Un mix fatto di persone, territori, culture, innovazione tecnologica sostenibile e di tensione etica e pragmatica – non conservatrice aggiungerei io – a trasportare il nostro patrimonio di biodiversità nel futuro. E qui l’autore cita due casi concreti di prodotti innovativi nati nella provincia: la cassetta di cottura Filo&Fibra a San Casciano dei Bagni e un casco da saldatore con visore digitale, sviluppato dalla bottega di Verona Pegoretti Cicli e l’ITS Marker di Modena. Quindi nulla a che vedere con la decrescita più o meno felice, precisa Manfredi, né con improbabili alternative alla (neo)globalizzazione ma un’idea di sviluppo rispettosa della nostra biodiversità e sostenibile. Perché non spreca risorse, ma le rimette al servizio dell’economia e delle comunità, anche utilizzando il meglio dell’innovazione, ridando senso al territorio, alla collaborazione e al lavoro.

Nelle cooperative di comunità “ecosistemi” che attraverso la collaborazione, l’innovazione, la conoscenza e l’impresa creano valore, uno dei possibili spazi d’azione del Piano e l’innovazione come chiave di volta di una nuova economia di territorio. Ma da chi partire? L’autore indica nei piccoli imprenditori, artigiani e cooperatori, ma anche negli amministratori locali, il lievito da cui cominciare a dare forma ad una nuova economia. Tutti soggetti marginalizzati ma non marginali. Vasto programma, vero. Ma l’alternativa?

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