Merita attenzione il confronto tra le parti per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. E non solo perché si tratta della maggiore categoria manifatturiera.
In un contesto di bassa produttività e di bassi salari gli incrementi retributivi dovrebbero corrispondere da un lato al recupero ex post dell’inflazione verificata e, dall’altro, alla distribuzione dei risultati nelle aziende in cui si producono. Si sono sin qui contrapposti due approcci.
La parte datoriale sostiene che gli aumenti per tutti non sono sostenibili dalle molte piccole imprese in difficoltà. La parte sindacale risponde che i contratti aziendali “coprono” solo una parte dei lavoratori. È emersa così l’idea di determinare comunque, con il contratto nazionale, una maggiore retribuzione nelle aziende che incrementano il margine operativo lordo rispetto al fatturato. Così si garantirebbero aumenti a tutti i lavoratori delle imprese che vanno bene ma non fanno un proprio contratto integrativo.
Esaurito il tempo dell’omologazione e dell’egualitarismo, oltre l’inflazione, i salari devono crescere dovunque possibile. Nel senso che la ricchezza può (e deve) essere distribuita dove si è prodotta e dopo che si è prodotta. Questa misura sospinge anche gli accordi di prossimità con il vantaggio fiscale che li accompagna. E che potrebbe essere migliorato con una vera e propria flat tax per le parti meritevoli del salario.
Da segnalare infine è la proposta datoriale di aggiungere ai fondi per sanità e previdenza integrative una assicurazione nel caso di non autosufficienza anche dopo la pensione. Darebbe diritto a una erogazione di 600 euro mensili raddoppiando la indennità di accompagnamento.
A questi contenuti se ne aggiungono infine altri innovativi. C’è da augurarsi che i sindacati (il plurale è d’obbligo) non rifiutino questi terreni di confronto nel nome di una cifra più modesta ma uguale per tutti.