Credo che ci sia un nesso tra una serie di fenomeni inediti che riguardano l’occupazione/disoccupazione: quello delle dimissioni (la great resignation), la crescente mancanza di incontro tra domanda e offerta di lavoro, in particolare il progressivo divaricarsi tra domanda e offerta di lavoro in alcuni comparti.
Si tratta di un insieme di fenomeni che genera una situazione insolita: nel primo quadrimestre 2022, ci informa l’Osservatorio Ministero-Bankitalia- ANPAL, ha proseguito il trend positivo dell’occupazione: dall’inizio dell’anno sono state create, al netto delle cessazioni, 260.000 posti di lavoro. 175.000 con contratti a tempo indeterminato (tra nuove assunzioni e trasformazioni di contratti a termine); il comparto terziario ha fatto la parte del leone, con la gran maggioranza delle attivazioni nette tra turismo, commercio e altri servizi. Altro dato fortemente positivo la riduzione dei disoccupati “amministrativi”, cioè di coloro che hanno firmato una DID (la disponibilità ad accettare un lavoro); si tratta dei disoccupati “correct”, cioè di coloro che effettivamente cercano un lavoro: stiamo parlando di oltre 60.000 persone in meno di 12 mesi fa. Altrettanto positivo ed interessante il dato sulla dinamica entrata-uscita dalla disoccupazione dei lavoratori con contratti a termine: un dato in forte flessione per tutto il 2021 e che continua per il 2022, che indica sia una crescente tendenza alla stabilizzazione dei contratti temporanei (come visto sopra) che una maggior durata media dei contratti a termine.
Questi dati abbastanza brillanti hanno tuttavia un brutto rovescio della medaglia: l’Osservatorio ANPAL Excelsior informa che le imprese hanno bisogno di assumere 444.000 dipendenti a Maggio, e 1.530.000 entro luglio. Tuttavia è già verificata una difficoltà di reperimento quasi del 40%, con punte del 52% per gli operai specializzati, del 45% per le professioni tecniche, del 42% per conduttori di impianti. Per la gran maggioranza questo mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro non è neanche dovuto a competenze insufficienti, ma proprio a mancanza di candidature.
Tutto ciò non è una completa novità, ma viene stranamente a coincidere con una sorta di “fuga dal lavoro” (appunto la great resignation), o più precisamente con un aumento non epocale ma comunque visibile delle dimissioni volontarie: a Marzo 2022 sono state superiori non di molto rispetto a quelle dell’ultimo mese ante covid (circa +15.000) e comunque in linea con quelle registrate subito dopo la conclusione della fase lock down. I media amano enfatizzare questo fenomeno (di solito presentandolo come un new deal) paragonando i dati recenti a quelli del periodo del lock down, ottenendo percentuali di crescita favolose, di cui ovviamente non viene illustrato il motivo…
Detto dunque che parliamo di un fenomeno rilevabile ma di dimensioni molto più modeste di quanto non magnifichino i media, è opportuno esaminarlo un po’ più nei dettagli. Innanzitutto chi sono i lavoratori che si dimettono: una bella analisi è quella condotta dalla Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro sui dati 2021. Le dimissioni si spalmano abbastanza equanimemente su lavoratori a termine o stabili, a part time o full time, con una netta prevalenza però per le professioni del comparto terziario (70%): sul totale per il 25% si tratta di profili professionali qualificati e per il 17% di professioni non qualificate. In prevalenza (30%) si tratta di giovani tra 25 e 34 anni, con basso titolo di studio (max diploma non valido per accesso a università). Se però andiamo a vedere “l’albero” delle professionalità, vediamo che all’interno delle diverse fasce quelle in cui incide di più il fenomeno dimissioni sono quella più bassa (professioni non qualificate, 23%) e più alta (scientifiche e di elevata specializzazione, 22%), subito seguita (21,5%) da artigiani e operai specializzati. Se compariamo questi dati con quelli relativi alla domanda di lavoro e al mismatch (Excelsior ANPAL) vediamo che c’è una sensibile coincidenza: per il 30% si cercano profili professionali qualificati del settore terziario, per il 18% profili non qualificati sempre per il terziario. Se consideriamo poi il mismatch all’interno delle fasce di professionalità vediamo che il valore per la fascia più bassa è del 28%; molto alto però il mismatch anche per la fascia a più alta professionalità (45%) e per quella di artigiani-operai specializzati (52%). Esiste quindi una certa rilevante coincidenza tra le quantità e i profili del personale che si dimette e quello che le aziende cercano senza trovarlo.
Interessante anche il dato sulla ricollocazione dei lavoratori dimissionari: secondo la ricerca dei Consulenti del Lavoro (dati 2021) entro un massimo di 9 mesi sono ricollocati oltre il 55% dei dimissionari, con punte del 70% per i laureati, e con una buona parte collocata entro 1 mese. Le professioni tecniche, scientifiche e intellettuali stanno sul 65%, gli operai specializzati e gli artigiani al 56%, ma le professioni non qualificate e qualificate del comparto servizi rispettivamente al 49% e 46%. In sostanza la percentuale più alta di non ricollocamento, o quanto meno di ritardo, è nel settore nel quale si addensa il maggior numero di dimissioni e il più alto mismatch.
Tutto questo avviene in un contesto nel quale lo stock di occupazione è in (modesta) crescita, la disoccupazione ricomincia a scendere e il tasso di attività tende ad assestarsi su livelli superiori a quelli storici. Il risultato è un mercato del lavoro con dinamiche interne più veloci (non necessariamente un mercato del lavoro più dinamico, soprattutto per quanto concerne i nuovi ingressi e la mobilità). Alcuni dati sono molto significativi: secondo una ricerca di Gartner, un’azienda tipica – che di solito aveva un ricambio di circa un quinto dei suoi dipendenti prima della pandemia – ora potrebbe perderne quasi un quarto ogni anno. Non solo: in Italia a partire da maggio 2021 si è registrata una crescita costante della domanda di lavoro, con un picco di incremento del +58% a marzo 2022. Per ogni 100 opportunità lavorative esistenti pre-pandemia, oggi ne esistono 158.
In sostanza, un mercato del lavoro in cui cresce la domanda molto più dell’offerta ma che proprio per questo stimola una corsa alla ricollocazione di chi è occupato per spuntare condizioni migliori (e non solo sul piano salariale, ma anche delle modalità lavorative, pensiamo all’home working, e al welfare). Tuttavia questa corsa genera due effetti distinti: per i profili professionali superiori il fenomeno dimissioni e il mismatch produce una concorrenza tra datori di lavoro, mentre per i profili non professionali e in generale per il comparto dei servizi le dimissioni vanno ad incrementare un’offerta già ampia, per quanto penalizzata dal mismatch, ma ancora insufficiente ad innescare una rincorsa dei salari. In realtà in questa fascia si accalca un’offerta dequalificata, che viene incrementata dalle dimissioni di chi è in cerca di retribuzioni migliori il che determina, nonostante il mismatch penalizzi molte aziende, una propensione a comprimere i salari: la UIL ha stimato che le retribuzioni orarie offerte non raggiungano i 4€ orari, contro un minimo contrattuale di 7€.
In definitiva l’effetto combinato dimissioni – mismatch determina un’accentuata spaccatura del mercato del lavoro. Nella fascia superiore, dalle professioni scientifiche fino agli operai specializzati, produrrà da un lato una crescita dei salari che potrebbero facilmente scavalcare gli strumenti di contrattazione collettiva del sindacato (fermo restando il grave fenomeno della mancanza di mano d’opera). Nelle fasce poco o niente qualificate, soprattutto nel comparto dei servizi, l’aumento dell’offerta genererà una situazione di crisi, con le aziende che faticheranno a trovare mano d’opera ma non per questo innescheranno una fase di aumento dei salari, contando su una riserva di mano d’opera comunque enorme. E tutto questo non verrà governato dai sindacati, che già ora sono scavalcati dagli eventi.
Un mercato del lavoro che, nel suo complesso, diventa più frenetico senza che l’offerta si adegui alla domanda, non aiuta la crescita né la contrattazione salariale, e rischia di diventare esplosivo al primo accenno di decrescita.