Skip to content

lavorare

Lavorare 4 giorni a settimana? Dibattito

Torna nella discussione tra le parti sociali la proposta di contrarre la settimana lavorativa su 4 giorni anziché 5 e a proposito alcune riflessioni sono opportune dopo un confronto molto vivace  in ambito confindustriale con imprenditori associazioni e sindacati 

La flessibilità lavorativa : la vicenda della pandemia  ha cambiato molte cose, ha reso necessaria una maggiore flessibilità del lavoro. Forse lo smart working  praticato non rispondeva  ai canoni previsti ma molto di più all’arte di arrangiarsi, ma il cambiamento c’è stato nell’uso delle tecnologie (magari non troppo sofisticate) e nell’organizzazione dei propri tempi di lavoro. Vedo un problema: che la flessibilità venga declinata prevalentemente al femminile e cioè che sia finalizzata a consentire alla lavoratrice di occuparsi del lavoro di cura, allontanandosi di più da quelle opportunità lavorative che le vengono nei fatti precluse. Gli ultimi dati ci dicono  che nella Ue le donne guadagnano il 15% meno degli uomini. Quando vennero estesi i congedi parentali  anche agli uomini una ricerca scoprì un’alta concentrazione di uomini tra i fruitori dei permessi fino a 31 giorni (ben l’83,2% contro il 55,3% di donne). La giustificazione, apparentemente singolare, stava nel fatto che i contratti di lavoro pubblici riconoscono alla persona in congedo, fino al 30° giorno, l’intera retribuzione a carico dell’ente. In sostanza, nell’ambito della coppia, l’uomo tendeva ad esercitare il diritto alle migliori condizioni  possibili, caricando sulla donna assenze più lunghe e meno tutelate. Nel mondo privato, la situazione era del tutto differente, anche perché la copertura economica era fissata in misura del 30% della retribuzione e, probabilmente, gli interessati devono farsi carico di esigenze altrui, connesse agli impegni della loro attività. A quanto si conosce, i lavoratori che fecero ricorso ai congedi furono pochissimi, appena qualche decina in tre anni. Sono convinta  a proposito di congedi che rilanciare lo strumento della bilateralità è utilissimo perché  significa attuare la concreta sussidiarietà tra colleghi e impresa  per congedi ulteriori uscendo dallo schema che gli enti bilaterali si occupano solo di formazione . Inoltre bisogna  puntare sulla vera responsabilità sociale dell’impresa (basta convegnistica e attenzione alle certificazioni fasulle sul genere business (2008/2014) non sono servite a niente ,molto meglio la certificazione delle competenze e molta più attenzione alle disabilità poiché la legge del 2021è stata finora inapplicata.

Poi chiaramente è importante potenziare le politiche attive per l’occupazione. In base al confronto anno su anno, l’incremento dei posti di lavoro è stato di 512 mila unità, di cui la stragrande maggioranza (443 mila)  sono posti fissi  ma sempre non femminili anche Istat NON ha evidenziato il dato. Vero è che l’andamento dell’occupazione è tanto più sorprendete in quanto è fermo il pil  nel terzo trimestre ’23. Interventi riformatori ci sono stati anche importanti: ricordo il pacchetto Treu del 1997, la legge Biagi del 2003, il recepimento della direttiva europea sul lavoro a termine, la legge Fornero sul mercato del lavoro del 2012 e da ultimo il jobs act 2014-2015. Il fatto è che  alla fine siamo sempre rimasti prigionieri del passato, la difesa del posto di lavoro quella che Ichino chiama la job propriety e non del lavoro. Alla fine la priorità l’hanno avuta le politiche passive.  Ci sono dei problemi strutturali.Un raffronto con gli altri paesi europei circa la spesa destinata alle politiche del lavoro mostra uno scarto notevole a vantaggio delle politiche “passive”: il 2,6 del pil in Italia contro una media europea del 2%; mentre per le politiche “attive” si spende in Italia lo 0,22% del pil contro una media europea dello 0,61%. Ma la debolezza delle politiche attive si manifesta soprattutto nei servizi per il lavoro. Questi, oltre a risentire della esiguità dei finanziamenti, registrano grandi limiti sul piano dell’efficienza, della competenza e dell’efficacia.” I CPI sono gli eredi degli uffici del collocamento pubblico – abolito grazie ad una direttiva europea- che svolgevano compiti di registrazione e non di promozione del lavoro. Il numero degli addetti è assai inferiore a quello dei servizi di altri Paesi. Ma il problema non è solo questo. Essere operatore di politiche attive è un mestiere difficile. Nel settore pubblico le politiche attive sono di competenza regionale, insieme alla formazione. Le stesse agenzie del lavoro private ‘’campano’’ con la somministrazione e stentano a attuare politiche di ricollocazione, che poi non vengono finanziate in misura adeguata.  Anche nel campo delle politiche passive il jobs act aveva fatto una distinzione netta tra politiche in costanza di rapporto di lavoro  e politiche dopo la risoluzione del rapporto di lavoro. Ciò voleva dire mettere dei limiti all’uso della cig (che in passato aveva drogato il mercato del lavoro  e ora il fenomeno recente degli ultimi dati che la proiettano in cima ci deve far riflettere , dovevamo e dobbiamo passare alla Naspi in tempi definiti ed intraprendere un percorso di ricollocazione. Invece i confini della cig si sono sempre spostati più avanti e non solo in casi particolari ma in generale. La riforma Orlando col pretesto dell’universalismo delle prestazioni di tutela del reddito ha reso strutturale il ruolo e l’ambito di intervento realizzato in deroga durante la pandemia. Abbiamo dunque bisogno di mettere mano e subito ad una riforma vera che risponda alle esigenze della richiesta e offerta di lavoro da parte delle persone aziende e mercato.Vengo da una città che vanta un’industria manifatturiera di grande tradizione e qualità.  Questo risultato è stato possibile , negli anni del boom economico e dopo , grazie ad un istituto tecnico del Comune: le Aldini, una scuola che formava gli operai qualificati e i tecnici. Con questo esempio ho già risposto alla sua domanda.

Proprio nei giorni scorsi l’Ocse ha invitato i  responsabili pubblici a migliorare l’allineamento dell’istruzione e della formazione sulle competenze di cui il mercato del lavoro ha bisogno. Questo – precisa Ocse – è indispensabile per aiutare i lavoratori a fronteggiare le importanti conseguenze di queste trasformazioni sul mercato del lavoro”. Io però aggiungo un aspetto che mi pare trascurato: l’andamento demografico. Se continuiamo così prima ancore che le competenze mancheranno le intelligenze e le braccia, le persone per la banale questione che non sono nate in numero adeguato. Oggi le aziende  hanno difficoltà non solo a trovare i saldatori, ma anche i manovali comuni. La Fim è il solo sindacato che si è posto questo problema.  Tra vent’anni i demografi dicono che mancheranno 5-6 milioni di persone il età di lavoro. Bene dunque la politiche a sostegno della natalità, ma – ammesso e non concesso che sia possibile – per  ricostruire la filiera della riproduzione sociale ci vorrà lo stesso tempo che abbiamo impiegato per demolirla. Nel 1964 in Italia nacquero 1,1milioni di bambini, l’anno scorso circa 390mila. Può sembrare paradossale, ma pur con tutti i problemi che pone, l’immigrazione finisce per essere la risposta meno difficile. GLI INTERVENTI DEVONO ESSERE STRUTTURALI e non di anno in anno : assegno universale, decontribuzione (due figli  e poi basta?) riforma fiscale equilibrata,  soprattutto collaborazione tra Università P/P e scuole professionali le energie dei territori le aziende per poter costruire insieme e sperimentare modelli di flessibilità lavorativa. L’Università deve rivoltarsi come un calzino : deve essere nei suoi moduli formativi interdisciplinare perché dobbiamo sostenere i giovani certo a diventare persone ma anche  capire i valori del lavoro . Dobbiamo impegnarci per poter modificare la vita lavorativa e far incontrare le esigenze di flessibilità delle persone e significa avere uno scopo condiviso come modello di relazione con le risorse che compongono l’azienda, l’importanza di fare sentire tutti parte del progetto e di come sia di vitale obiettivo avere a cuore i propri collaboratori, cercando sempre di condividere sfide e iniziative al loro fianco. Il leader è colui che genera il senso di appartenenza  azienda come comunità umana, nella quale i collaboratori lavorano per l’azienda, ma l’azienda deve sempre più lavorare per loro, esprimendo apprezzamento per le mansioni, condivisione nella risoluzione dei problemi, dunque interesse concreto per la vita delle persone, e reddito congruo alle necessità quotidiane.

Torna su