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La tragedia delle morti sul lavoro e l’indefessa retorica delle balle

Che cosa si dice e che cosa non si dice su lavoro, morti e Costituzione... L'opinione di Battista Falconi

Quello dei morti sul lavoro è forse il tema dove meglio si misura la subordinazione della verità alla propaganda nella comunicazione politica e istituzionale. Quando leader di partito, sindacalisti e rappresentanti delle istituzioni sostengono che bisogna azzerare gli incidenti mortali, infatti, sanno perfettamente di mentire e tacciono spudoratamente l’unica cosa che potrebbero dire in buonafede: “Occorre fare altri sforzi per ridurre queste disgrazie”, chiarendo che il rischio zero nei cantieri, come sulle strade, è un mito, un traguardo irraggiungibile. Semplicemente, una balla.

Ma per quale ragione quest’anno il primo maggio ha puntato così tanto su questo aspetto, anziché su quelli più consueti dell’occupazione e dei salari? In parte, probabilmente, perché i dati al riguardo sono meno chiari e non avrebbero consentito di fare facilmente bella figura, magari sparando un po’ di demagogia a casaccio e a buon mercato. Ma forse c’è una motivazione più profonda: il minor interesse per i posti di lavoro e per i redditi da lavoro, specie tra i giovani che di questa festa costituiscono un target privilegiato.

I ragazzi sono molto meno fissati che in passato sul fare un certo lavoro. Hanno meno vocazione, se così vogliamo dire, e soprattutto sono meno intenzionati a sacrificare la stragrande maggioranza della loro vita all’attività professionale. Non pensano che un buon mestiere meriti tutto e nemmeno il relativo stipendio. Se lo possono permettere poiché lo stato patrimoniale che le famiglie garantisce loro è già una sufficiente assicurazione contro l’indigenza, certo, ma anche perché è cambiata la loro mentalità, la cultura diffusa. Hanno finalmente metabolizzato il vantaggio, sedimentato nei secoli, della riduzione quantitativa del lavoro e della fatica nella vita umana.

Anzi, il processo è tardivo e impreciso, potremmo fare molto meglio. Potremmo ridurre drasticamente il numero di persone e la quantità di tempo sacrificati per percorrere alle stesse ore, quasi tutti i giorni, gli stessi tragitti, al solo fine di giungere negli stessi luoghi a fare le stesse cose. La pandemia ci aveva offerto una grande occasione di riflessione, che abbiamo in gran parte sprecata. La tecnologia, da sempre e sempre più nei tempi recenti, ci consente di esentarci dallo svolgere una mole di adempimenti, grazie a sistemi e strumenti sostitutivi. Eppure, quando l’opportunità si apre disquisiamo più di timori, dubbi e possibili controindicazioni che dei potenziali vantaggi, vedi le polemiche sull’intelligenza artificiale (una meravigliosa rivoluzione, se bene organizzata, della sanità, dei trasporti e di tanti altri servizi).Siamo però proni a subire la distorsione delle innovazioni in forme di schiavitù, come con le perenni connessioni che impediscono di “staccare” veramente dai propri doveri lavorativi.

Sappiamo che il lavoro è sia maledizione biblica che nobilitazione dell’uomo, sappiamo che le battaglie per le otto ore, le settimane corte e lo smart working non possono risolversi in mera inattività e che, al contrario, stimolano un’inventiva fantasiosa che si risolve in “fare altro”. Non si tratta quindi di traguardare l’inedia come obiettivo. Ma il dibattito su questo cambiamento andrebbe condotto più speditamente e serenamente, anzi ottimisticamente. Un buon punto di partenza simbolico potrebbe essere l’abrogazione dell’assurdo e obsoleto articolo uno della Costituzione, notoriamente frutto di un rabberciato compromesso con cui si devolvette ai progressisti l’obolo della citazione in apertura della Carta del lavoro quale elemento fondativo della Repubblica.

E perché proprio il lavoro? Non sarebbe stato più antifascistamente corretto fondare la nuova Italia democratica sulla libertà? E magari anche sulla fratellanza e sull’uguaglianza, così da ossequiare la trimurti illuministico-rivoluzionaria? Forse non abbiamo indicato la libertà perché richiede la verità quale premessa e la politica preferisce la propaganda. Ma vogliamo essere fiduciosi. Gli anziani l’hanno sempre lamentato che i giovani non hanno voglia di lavorare, ora però si possono permettere di evitarlo come mai prima. Speriamo lo facciano davvero, contiamo su di loro.

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