La fotografia Istat del mercato del lavoro descrive nel mese di marzo il miglioramento di importanti indicatori come il tasso di occupazione generale, il tasso di disoccupazione, quello di inattività, l’incidenza dei contratti permanenti. È legittimo, anzi doveroso, segnalare la conferma di una tendenza positiva dopo la pandemia ma è altrettanto necessario rilevare i persistenti ritardi per orientare in conseguenza le politiche pubbliche.
Rimaniamo lontani dalla media europea degli occupati di ben 13 punti, le donne che lavorano sono ferme al 53% rispetto a un tasso medio in Europa del 70,2%, il tasso di disoccupazione degli under 25 scende al 20,1% ma si conferma lontanissimo da quello degli altri Paesi e in particolare dal 5,8% della Germania. Soprattutto, rimane stabile al 33% il tasso degli inattivi che non lavorano e non chiedono di lavorare.
L’economia italiana è apparsa più resiliente rispetto a quella di altri Paesi dell’Unione e ciò spiega la faccia positiva della rilevazione. Tuttavia, il persistere di gravi ritardi e la comparsa di fenomeni negativi nuovi, come quello delle poche ore lavorate di molti, impongono maggiore coraggio. Si tratta di produrre una più diffusa formazione duale, in modo che il contatto con il lavoro sia più precoce, il modello della contrattazione collettiva decentrando salari e regole adattive, il sistema della intermediazione tra domanda e offerta così da mobilitare molti operatori in concorrenza tra loro.
Possiamo e dobbiamo realizzare un incremento crash degli indicatori di inclusione e di reddito, anche confliggendo con le resistenze ideologiche che penalizzano gli interessi dei lavoratori. Gli anni ‘70 sono lontani ma incredibilmente condizionano tuttora le politiche del lavoro. La base dei contratti collettivi è rimasta immutata (o quasi) nelle qualifiche professionali nonostante sia da tempo esaurito il modello produttivo fordista. La regolazione legislativa è stata rinnovata dalla legge Biagi e dal Jobs act ma non è stato completato il progetto di un nuovo Statuto di tutti i lavori. La struttura dei salari è tuttora indifferente al merito e alla produttività.
C’è ancora molto da fare per dare valore al lavoro.
Maurizio Sacconi