Da quando a fine agosto il Giappone ha ottenuto il via libera dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) per sversare le acque reflue della centrale nucleare di Fukushima la Cina non acquista più il suo pesce e quindi sono intervenuti gli Stati Uniti, che hanno stipulato con Tokyo “un contratto a lungo termine”.
L’INCIDENTE NUCLEARE DI FUKUSHIMA E IL BANDO DELLA CINA
L’11 marzo del 2011 uno tsunami innescato da un terremoto di magnitudo 9 inondò tre reattori della centrale nucleare di Fukushima, provocando un incidente nucleare di livello 7, lo stesso attribuito a quello di Chernobyl del 1986. L’acqua utilizzata per raffreddare i reattori, e dunque altamente radioattiva, venne poi immagazzinata in centinaia di serbatoi d’acciaio sigillati nell’attesa che si decidesse come smaltirla.
Ma nel 2019, la Tokyo Electric Power (Tepco), l’operatore dell’impianto, ha avvertito che entro tre anni si sarebbe esaurito lo spazio di stoccaggio per l’acqua contaminata e nel 2021 il governo giapponese ha pubblicato un piano sullo scarico graduale di tale materiale in mare dopo averlo trattato chimicamente.
Lo scorso maggio l’autorità giapponese di regolamentazione nucleare ha approvato formalmente il piano di scarico e l’Aiea, dopo anni di studi, il 4 luglio lo ha dichiarato sicuro. Il 24 agosto il Giappone ha quindi iniziato a rilasciare le acque reflue dell’impianto di Fukushima nell’Oceano Pacifico.
A questo punto, citando timori per la sicurezza alimentare ma continuando a pescare vicino al Giappone, la Cina ha vietato immediatamente le esportazioni di pesce dal vicino Paese nonostante la richiesta dei ministri del commercio del G7 di abrogare tali provvedimenti.
MA COSA SIGNIFICA PER IL GIAPPONE UN SIMILE BANDO?
La decisione di Pechino rappresenta tuttavia un grave colpo per l’economia giapponese. Per dare un’idea, Quartz riporta alcuni dati relativi alle esportazioni di pesce del Giappone verso la Cina prima che iniziasse l’operazione di sversamento delle acque.
Solo l’isola settentrionale giapponese di Hokkaido, nota per l’allevamento di capesante, esportava il 64% dei suoi prodotti ittici in Cina, dove venivano anche lavorati per poi essere venduti negli Stati Uniti, in Europa e persino in Giappone.
“Ora – scrive Quartz – capesante e altri frutti di mare sono ammassati nei congelatori degli impianti di lavorazione giapponesi” e “gli oltre mille pescatori colpiti non devono solo riprendersi dal danno alle vendite fisiche, ma anche dal duraturo danno alla reputazione”.
Intanto, il calo dei prezzi delle capesante giapponesi nei due mesi successivi al divieto cinese è stato tra l’11 e il 27%.
IL TIMIDO AIUTO DEGLI STATI UNITI
Il 30 ottobre scorso sono quindi intervenuti gli Stati Uniti, il cui esercito ha iniziato ad acquistare i prodotti ittici giapponesi ma le cifre sono lontane anni luce da quelle della Cina. Infatti, se Pechino l’anno scorso importava 100.000 tonnellate di capesante, l’esercito americano ne ha comprate solo una tonnellata per iniziare.
L’accordo, un “contratto a lungo termine”, tra i due Paesi prevede che le forze armate statunitensi acquistino all’ingrosso – per la prima volta – frutti di mare giapponesi per i soldati nelle mense e a bordo delle navi e per venderli nei negozi e nei ristoranti delle basi, secondo quanto dichiarato a Reuters da Rahm Emanuel, ambasciatore degli Stati Uniti in Giappone.
UN ACCORDO DESTINATO A LASCIARE IL TEMPO CHE TROVA
Emanuel ha poi voluto evidenziare che la mossa degli Stati Uniti è volta a “logorare la coercizione economica della Cina”, definita “lo strumento più persistente e pernicioso” della Cina. Ma, come osserva Quartz, considerando che il rilascio totale di tutte le acque reflue di Fukushima potrebbe richiedere fino a 40 anni, è davvero credibile e sostenibile che la Cina mantenga un simile divieto per i prossimi 40 anni e che gli Stati Uniti si facciano carico di una simile promessa?