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Visco

La deglobalizzazione ridurrà la crescita e aumenterà la povertà. Parola di Visco (Bankitalia)

Estratto delle Considerazioni finali del governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco

 

È in corso da tempo una riflessione sugli equilibri internazionali e sul governo della globalizzazione, imposta dai gravi shock che hanno colpito in successione l’economia mondiale negli ultimi 15 anni, dalle conseguenze distributive di questo processo nei diversi paesi, nonché dai progressivi mutamenti nel peso relativo – demografico, economico e politico – delle nazioni avanzate e di quelle emergenti (fig. 5). La guerra in Ucraina rischia di deviare il corso di questo necessario ripensamento e riportarci verso un mondo diviso in blocchi, con minori movimenti non solo di beni, servizi e capitali finanziari, ma anche di tecnologie, idee e persone.

Negli ultimi trent’anni, con la fine della Guerra fredda, l’apertura degli scambi e il progresso tecnologico hanno prodotto profondi mutamenti. Hanno avuto accesso ai mercati globali miliardi di persone che prima ne erano di fatto escluse; ne è conseguita un’espansione senza precedenti. Il prodotto mondiale è oggi due volte e mezzo il livello del 1990, quello pro capite è aumentato del 75 per cento, il commercio internazionale è più che quadruplicato (fig. 6). In alcune aree, in particolare nei paesi emergenti dell’Asia, lo sviluppo economico e il miglioramento delle condizioni di vita sono stati straordinari. Nonostante il contestuale incremento della popolazione mondiale – da 5 a 8 miliardi, concentrato per oltre il 90 per cento nelle economie emergenti e in via di sviluppo – il numero di persone in condizioni di povertà estrema è diminuito nettamente, con l’eccezione dell’Africa subsahariana, da quasi 2 miliardi a meno di 700 milioni.

I guadagni di efficienza generati dallo sfruttamento delle economie di scala, dalle differenze nella produttività e dalla diversa disponibilità dei fattori di produzione tra paesi e aree sono stati amplificati dall’organizzazione lungo catene globali del valore, nel cui ambito si svolgeva, prima della pandemia, circa metà degli scambi commerciali internazionali. I flussi di capitale hanno nel contempo continuato a sostenere l’integrazione economica, assicurando una migliore allocazione delle risorse e una maggiore diversificazione del rischio.

È stato un processo non privo di incertezze e difficoltà. La natura dei movimenti di capitale è cambiata: dalla crisi finanziaria globale è molto cresciuto il ruolo dell’intermediazione finanziaria non bancaria. Mentre la rischiosità della componente bancaria è stata attenuata da una vasta riforma delle regole e dalle politiche micro- e macro-prudenziali, l’ampliamento del grado di diversificazione delle fonti di finanziamento all’economia è stato accompagnato da marcati episodi di volatilità. L’allungamento delle catene del valore ha accentuato le esigenze di finanziamento delle imprese; per quelle che operano nelle economie emergenti e nei paesi meno sviluppati, l’ampia quota di debito in valuta ne ha aggravato la vulnerabilità a shock esterni. La riproduzione su scala mondiale di modelli organizzativi di pianificazione just-in-time ha accresciuto la fragilità delle filiere produttive e i rischi di propagazione internazionale di difficoltà alla produzione di natura locale.

La globalizzazione ha fatto leva anche sulle differenze normative tra giurisdizioni – in particolare in materia di regimi di tassazione dei profitti, di sostenibilità ambientale e di tutela dei lavoratori. Inoltre, nonostante la significativa riduzione delle disparità nei redditi pro capite tra paesi, le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza e del reddito sono fortemente aumentate all’interno di molte economie, specie quelle avanzate, dando origine a istanze di maggiore protezione sociale e minando la fiducia nei benefici della globalizzazione e del progresso tecnologico, anche per l’assenza di risposte adeguate da parte delle politiche nazionali. I ripetuti shock di origine esterna, oltre ad amplificare la volatilità dei redditi, hanno aumentato l’incertezza sulle prospettive economiche individuali e contribuito a generare insicurezza diffusa.

La pandemia, con la forte caduta degli scambi internazionali e le strozzature nelle catene di fornitura di alcuni beni intermedi, e l’invasione russa dell’Ucraina, con le sue ripercussioni sull’approvvigionamento energetico e alimentare, potrebbero spingere verso una riorganizzazione del commercio internazionale che privilegi la tenuta dell’offerta, soprattutto nei settori strategici. In questo assetto gli scambi potrebbero essere concentrati all’interno di aree costituite da paesi politicamente affini o uniti da accordi economici regionali.

Una divisione del mondo in blocchi rischierebbe tuttavia di compromettere i meccanismi che hanno stimolato la crescita e ridotto la povertà a livello globale. Una ricomposizione della fitta rete di interdipendenze tra i paesi, anche se distribuita nel tempo, difficilmente potrebbe avvenire senza tensioni e forti correzioni dei prezzi dei beni, dei servizi e delle attività finanziarie e reali. L’allocazione del risparmio globale sarebbe inevitabilmente meno efficiente, il finanziamento dei debiti, pubblici e privati, dei singoli paesi meno agevole. Una frammentazione lungo confini definiti da pur necessarie considerazioni di sicurezza politica potrebbe avere conseguenze assai negative per le economie di minori dimensioni, specie quelle a più basso reddito che non beneficiano della partecipazione a consolidate aree economiche regionali.

In un mondo diviso in blocchi si perderebbe anche, e soprattutto, quel patrimonio di fiducia reciproca – per quanto fragile e non scontato – che, oltre a essere indispensabile per la convivenza pacifica tra le nazioni, rappresenta una insostituibile base per affrontare le sfide cruciali per le prossime generazioni. Il contenimento del riscaldamento globale, la lotta alla povertà estrema e il contrasto alle pandemie sono obiettivi formidabili, che nessun paese può affrontare da solo. L’esperienza della Presidenza italiana del Gruppo dei Venti (G20) lo scorso anno ha mostrato che, pur tra notevoli e crescenti difficoltà, l’azione collettiva può conseguire importanti risultati, anche se non si può non constatare quanto essa sia resa più ardua dal mutato contesto politico.

Una correzione di rotta che miri a coniugare i benefici della globalizzazione con politiche atte a contenerne le conseguenze negative è indispensabile. Deve fondarsi su una discussione aperta delle regole e del governo dell’economia globale, che porti a un nuovo equilibrio internazionale tenendo conto dell’accresciuta importanza dei paesi emergenti e della necessità di garantire il rispetto sostanziale dei principi e dei valori fondanti della convivenza pacifica tra le nazioni.

In caso contrario, a pagare il prezzo più elevato di una “deglobalizzazione” disordinata sarebbero proprio le fasce sociali e i paesi più vulnerabili e più poveri, anche se non mancherebbero le pressioni sulle economie avanzate, e in particolare sull’Europa. Oltre la metà del previsto aumento della popolazione mondiale, di 2 miliardi nei prossimi trent’anni, sarà concentrato in Africa: uno sviluppo sostenuto e sostenibile delle economie di questo continente è cruciale per ridurre la povertà estrema e garantire un consistente miglioramento delle prospettive economiche e sociali dei suoi abitanti, oltre che per scongiurare l’insorgere di flussi migratori difficilmente gestibili per intensità e dimensioni.

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