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Inps? Gli ammortizzatori sociali vadano all’Anpal. Parla il prof. Del Conte

Come riformare il mercato del lavoro e il sistema degli ammortizzatori sociali. L'intervista di Nunzia Penelope, vicedirettore del Diario del lavoro, a Maurizio Del Conte, docente di Diritto del lavoro alla Bocconi

 

Il blocco dei licenziamenti, anche se verrà prorogato ulteriormente, prima o poi dovrà terminare. E si porrà il problema di avere una rete di sicurezza adeguata a reggere l’impatto, un sistema di ammortizzatori sociali e di politiche attive del lavoro in grado di accompagnare sia gli eventuali licenziamenti, sia i re-inserimenti, sia le nuove assunzioni che la ripresa, si spera, porterà. Abbiamo parlato di questo, e di molto altro, con Maurizio Del Conte, docente di Diritto del lavoro alla Bocconi.

Del Conte, il sistema di ammortizzatori sociali di un tempo non funziona più, si sta lavorando a una riforma. Lei dice che il primo passo di questa riforma dovrebbe puntare a riunificare la parte sostegno al reddito con quella delle politiche attive. Per quale motivo?

Il sistema di ammortizzatori sociali, cosi come era stato pensato decenni fa, non è più funzionale. Una volta c’era lo scivolo verso la pensione, le crisi venivano usate dalle aziende anche per fare turnover. Un sistema discutibile, perché alla fine pagava sempre Pantalone, ma che aveva una sua logica. Oggi questo non si può più fare, sia per i costi, sia perché una persona deve affrontare sei o sette transizioni da un lavoro all’altro nella sua vita. Gli ammortizzatori sociali per essere efficienti devono oggi considerare uno “stipendio” di ricollocamento, una retribuzione per l’impegno che le persone assumono per la loro riqualificazione professionale e il successivo riposizionamento sul mercato del lavoro. Inoltre, è fondamentale che le persone vengano prese in carico velocemente: più a lungo restano lontane dal mercato del lavoro, più difficile sarà ricollocarle. Chi resta abbandonato al sussidio finisce poi nella disoccupazione di lunga durata e non si recupera più. Per questo è indispensabile che ammortizzatori sociali e politiche attive stiano assieme: tenere separati il sostegno al reddito da un lato, e dall’altro la rete che dovrà aiutare le persone nella ricerca di una nuova occupazione, accompagnandole e riqualificandole professionalmente, non può funzionare, è un sistema monco.

Metterle insieme cosa significa, in pratica?

So di essere in minoranza, ma penso che si dovrebbe togliere dall’Inps la parte assistenza, cioè gli ammortizzatori sociali, e affidarla all’Anpal. Oggi invece vedo che si sta riducendo il ruolo dell’Anpal stessa. Ma se non si ha un unico soggetto che eroga i sussidi e le politiche attive del lavoro, queste ultime restano solo una foglia di fico: l’inutile orpello di recarsi di tanto in tanto al centro per l’impiego, andare quando ti chiamano, cosa che oggi troppo spesso è un atto puramente formale.

La cosiddetta condizionalità non è mai stata esercitata, in effetti.

Ma perché è sbagliata come idea proprio alla radice: non è che prima ti dò, e poi verifico se ti impegni. Va fatto il contrario: faccio un patto con te, e ti remunero per il tuo impegno. Funziona così in Francia, in Germania, in Svezia, in tutti i paesi che hanno fatto forti investimenti sulle politiche attive. E ci sarebbe, in quest’ottica, da cambiare anche la Naspi: il decalage dopo il quarto mese non ha senso, in un sistema come quello che ho descritto.

Per quale motivo?

E’ sbagliato il concetto di base: il decalage oggi è inteso come stimolo perché ci si dia da fare a ritrovare una occupazione e non ci si adagi nel sussidio; ma se non offro assieme alcun percorso di reinserimento, che senso ha? Più giusto, secondo me, erogare l’assegno intero fino a compimento del percorso, con l’impegno reciproco a ricollocarsi e a formarsi professionalmente. C’è davvero tanto da lavorare per ricostruire le politiche attive: strutture, finanziamenti, percorsi, collaborazione pubblico privato, eccetera.

Una collaborazione pubblico privato in questo settore lei come la immagina?

Esistono già molte esperienze di collaborazione che funzionano. Le agenzie private hanno come riferimento principalmente le imprese, i centri per l’impiego, cioè il lato pubblico, sono più rivolti verso i lavoratori: una collaborazione tra loro consentirebbe di far incontrare più facilmente i due mondi, con scambi di informazioni e competenze. Inoltre, le imprese spesso non si rivolgono al pubblico perché non trovano le risposte di cui hanno bisogno, cioè candidati ben selezionati: è un servizio che i centri per l’impiego non sono sempre attrezzati per svolgere come sarebbe necessario. In sostanza: occorre diffondere la cultura di una intermediazione professionale che riesca a incrociare domanda e offerta di lavoro in modo coerente e ideale, risolvendo anche il disallineamento delle competenze. Oggi, con gli attuali sistemi ”informali”, c’è spessissimo una allocazione sbagliata delle persone.

E tuttavia le agenzie private vengono spesso dipinte come ”mercanti di carne umana”. Per quale motivo?

C’è un pregiudizio culturale: chiunque si intromette nel rapporto diretto datore-lavoratore viene visto come un profittatore. Ma questo accade perché si proietta quello che avviene nell’informalità su quei soggetti che invece svolgono una funzione professionale. Siamo rimasti orfani del collocamento a chiamata numerica, senza mai aver maturato una logica più moderna del mercato del lavoro, come in altri paesi dove le agenzie godono della fiducia degli utenti. Un approccio professionale, inoltre, favorirebbe anche una, diciamo, “moralizzazione” del mercato del lavoro stesso: fenomeni come il caporalato e il lavoro nero tenderebbero a ridursi, perché il lavoro intermediato professionalmente deve essere per forza di cose rispettoso della legalità.

C’è anche il problema che le politiche del lavoro sono competenza regionale: ognuno ha le sue idee e i suoi modelli, il referendum fallito del 2016 aveva anche questo obiettivo, quello di unificare le politiche del lavoro. Oggi cosa si può fare?

Penso che in prospettiva si dovrebbe realizzare un forte patto con le Regioni una volta per tutte: le politiche attive devono avere un taglio nazionale, amministrato poi a livello regionale, ma con regole uguali in tutto il paese. Le regioni devono poter dire la loro, ma poi occorre che tutti seguano uno standar unico e nazionale. Questo anche per un altra ragione, e cioè che nessun privato ti segue se hai venti regole diverse una per ogni diversa regione. E a pagare in questo caso sono le regioni più deboli, nelle quali i servizi per il lavoro sono in maggiore difficoltà.

Lei giustamente parla di ricollocazione dei lavoratori. Ma dati recenti dicono, per esempio, che una parte incredibilmente ampia di percettori di reddito di cittadinanza ha appena la terza media, e una parte appena più piccola nemmeno quella. A parte lo scandalo di un paese del G7 con simili livelli di scolarizzazione, resta da capire come si possono ricollocare persone così fragili culturalmente.

Purtroppo noi abbiamo un sistema educativo fermo a Gentile. C’è l’idea che la scuola debba essere solo cultura e che affiancarle il lavoro inquinerebbe il percorso culturale dei ragazzi. Inoltre: l’orientamento professionale da noi non esiste, lo fanno i genitori, lo zio, l’amico di famiglia, nel migliore dei casi un professore. E abbiamo infatti il più alto tasso di abbandono scolastico d’Europa, una crescente povertà educativa, migliaia di ragazzi con scarsissime chance di trovare mai una occupazionale decorosa. E’ un sistema, oltretutto, che aumenta anche le diseguaglianze: chi ha una famiglia colta avrà il supporto necessario a scegliere la scuola giusta, a completare gli studi, chi ha una famiglia svantaggiata culturalmente è tagliato fuori. Un sistema regressivo che premia le famiglie più strutturate e lascia le altre abbandonate a se stesse. In altri paesi, per esempio n Germania, il rapporto tra scuola e lavoro funziona diversamente e con eccellenti risultati.

Ma qual è il freno che si oppone a questa grande riforma che appare così necessaria e anche cosi di semplice buon senso, ma di cui si parla da anni senza realizzarla mai?

E’ un po’ il sistema italiano che la ostacola. Purtroppo, quando non fai partire un circolo virtuoso, finisci inevitabilmente per avviarne uno vizioso. E dunque c’è da un lato una obiettiva debolezza nei servizi pubblici e nell’incontro domanda – offerta; inoltre, alle agenzie private si rivolgono quasi solo le grandi aziende, mentre le piccole, cioè la stragrande maggioranza, finiscono per fare da sé, e spesso pescano in aree di lavoro ”grigio”, privilegiando il basso costo del lavoro alla qualità. E del resto, se vuoi pagare meno possibile, se vuoi fare la concorrenza sul singolo euro, non ti rivolgi a un servizio professionale. E’ tutto molto connesso.

C’è anche il problema dei salari molto bassi nel nostro paese, tanto da essere quasi perfettamente sovrapponibili alle cifre dei sussidi e della soglia di povertà. Può dipendere anche questo dal mal funzionamento del mercato del lavoro, o sono tirchi gli imprenditori, o non sanno fare il loro mestiere i sindacati, o cosa, secondo lei?

I salari sono bassi perché, di fondo, c’è un problema di scarsa produttività e di scarsa qualità del lavoro. Stiamo sempre più scivolando verso una competizione basata sul costo del lavoro, il risultato è una curva salariale che in Italia è piatta da vent’anni. D’altro canto, c’è anche una sorta di accordo di convenienza tra imprese e sindacati, sui salari bassi si fonda la pace sociale. Ma prima o poi le tensioni esplodono.

Insomma alla fine tutto si tiene: lavoro mal intermediato, di poca qualità, poco pagato, sussidi, aree grigie, guerre sui piazzali, eccetera. Lei dice che una profonda e seria riforma potrebbe risolvere molti di questi problemi. Pensa che si riuscirà a realizzare?

Non saprei dirlo. So però che oggi ci sono le risorse per farlo, e c’è la necessità assoluta di farlo. Dunque, se non si farà, sarà colpa dei decisori. Ma perdere questo treno sarebbe imperdonabile.

(Estratto di un articolo pubblicato su Il diavolo del lavoro, qui la versione integrale)

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