Replicare all’intervento di Giuliano Cazzola non è semplice perché ha trattato un quantitativo assai disparato di tematiche alcune prettamente ideologiche (sono un sostenitore del valore delle ideologie) uscendo spesso dal tema puramente pensionistico e dell’Inpgi, l’Istituto di previdenza dei giornalisti.
Mi trovo ovviamente totalmente in disaccordo da quanto ha sostenuto, prima che come giornalista e membro del Cda dell’Inpgi, come lavoratore.
Prima di tutto è evidente — nella mai logora contrapposizione capitale-lavoro — che in un modello anche minimamente riformista le pensioni hanno un ruolo determinante nel mantenimento degli anziani non a un livello di pura sopravvivenza ma consentendo loro una parte finale della vita piena, libera ed almeno economicamente autonoma. Gli Stati in generale, in tutto il mondo, stanno andando invece verso una progressiva, radicale, grave e per certi versi incomprensibile riduzione delle pensioni anche dal punto di vista del sistema complessivo. Con il risultato di gettare nella disperazione le persone in una fase di particolare fragilità della loro esistenza non potendo neanche — per età e malattie — reinserirsi nel mercato del lavoro. A parte il fatto che non è per nulla impossibile consentire di dare pensioni buone in relazione al reddito con il mantenimento del loro valore nel tempo (e potrei dilungarmi sui molti modi per farlo alternativi agli attuali), ridurre i trattamenti di quiescenza vuol dire danneggiare il mercato interno e in buona sostanza l’economia.
Torniamo però a quanto scritto da Cazzola per sfatare alcuni miti.
Le vagheggiate pensioni d’oro sono una pura invenzione se riferite alle pensioni alte. Esistono dei redditi, un sistema di trasformazione dei redditi in una pensione e una pensione. È evidente che se un lavoratore ha avuto una buona retribuzione nell’arco della vita percepirà una buona pensione. Punto. Le pensioni d’oro sono invece quelle quiescenze nate da un processo distorsivo: per esempio il permanere poco tempo in una funzione e ottenere il trattamento della retribuzione di questo periodo come base di calcolo della pensione. È il caso — tuttora esistente — di alcune altissime posizione delle forze dell’ordine. O di poter calcolare, episodio limite, la pensione su una mensilità sola scelta nell’arco di una intera vita (è l’esempio di un’azienda a partecipazione pubblica siciliana i cui dipendenti hanno potuto indicare un mese in cui avevano ottenuto gli arretrati di alcuni anni col risultato di ottenere una pensione con un valore del 110% dell’ultimo stipendio). Cosa ormai impossibile da molto tempo. Evitiamo i parlamentari che hanno una pensione normale perché anche di natura risarcitoria e che in realtà non c’entrano ormai quasi nulla con il tema.
In sostanza chi ha un’alta pensione ha versato tutte le tasse contribuendo in maniera consistente allo Stato Sociale e nel contempo con il sistema retributivo dell’Inpgi ha avuto una rivalutazione ben inferiore al 2,66% dello stipendio come asserito: la rivalutazione media è stata intorno all’1,5% e comunque non particolarmente generosa.
Potrei produrre una corposa, ma complessa e di difficile lettura, normativa.
In breve già dal 1998 (la riforma Dini è del 1996) il sistema retributivo dei giornalisti ha più o meno replicato il contributivo con ulteriori riduzioni in più successive riforme. Il risultato è che con ben 35 anni di anzianità si percepisce indicativamente il 60% dell’ultima retribuzione cioè se uno ha 3.000 euro netti nell’ultima busta paga ne ottiene meno di 2.000 pur avendo pagato fior di contributi.
Ma non è tutto.
Il sistema retributivo dell’Inpgi determina che chi guadagna di più percepisce percentualmente di meno perché i contributi vengono redistribuiti sulle pensioni più basse. Ancora: il famoso sistema contributivo pro rata applicato, in analogia alla legge Fornero, poiché aumenta la pensione se si ha una maggiore età e un più alto reddito avrebbe determinato pensioni più alte per i giornalisti: è intervenuta una clausola di salvaguardia che fa ottenere al lavoratore la pensione più bassa fra quella retributiva e contributiva. Potrei andare avanti ma perderei spazio per la vera questione.
Il sistema contributivo è di per sé sbagliato: è un sistema che premia chi ha una continuità lavorativa e un reddito crescente. Appare evidente l’assurdità di applicarlo in una fase storica lavorativa basata sul precariato e sulla discontinuità della retribuzione.
I precari — creati da una serie di leggi che vanno dai contratti di formazione, il pacchetto Treu, la legge Biagi, il Collegato lavoro, la legge Fornero sul lavoro del 2012, il Jobs Act — sono cresciuti in maniera strutturale. Il retributivo avrebbe attenuato l’impatto sulle loro pensioni, il contributivo lo aumenta. È sensato?
Di più. Come funzionano i sistemi retributivo e contributivo? Sono sistemi a ripartizione, cioè i lavoratori attivi, solo in parte giovani, pagano le pensioni per chi non è più attivo. A loro volta quando saranno in pensione le loro quiescenze saranno pagate da altri lavoratori. Per pagare le pensioni bisogna avere lo stesso o maggiore montante retributivo, cioè le stesse o maggiori retribuzioni, e lo stesso o un maggiore numero di lavoratori. Quindi il conflitto giovani-anziani è una produzione della mente. Per quale motivo un anziano dovrebbe scaricare gli svantaggi sui giovani? Se ci sono meno giovani, e per di più peggio retribuiti, il sistema salta.
È vero che per ora che le pensioni in essere non si possono toccare in base ad alcune sentenze della magistratura, ma è stata bloccata da decenni la loro reale rivalutazione e inoltre lo Stato per reperire risorse necessarie al default del sistema impone nuove tasse e tagli che colpiscono molto anche i pensionati. Quindi la vera questione è aumentare notevolmente il numero degli occupati stabili e, tornare a buone retribuzioni complessive.
Ricordiamo che la politica dei redditi dei primi anni Novanta con l’abolizione della scala mobile, cioè l’indicizzazione dei salari (e delle pensioni) e la riduzione complessiva dei lavoratori ha mandato subito in crisi il sistema previdenziale e sanitario.
Oggi i lavoratori sono stati ridotti, anche per una drastica modificazione degli stessi processi produttivi: non c’entra solo la tecnologia, oggi dove una volta lavoravano 10 persone se ne impiegano 5 o addirittura 2. Ovviamente facendo fare loro turni di lavoro — nei più svariati settori — pesanti e con ricadute sulle patologie e sugli incidenti che proprio la precarietà ha enormemente aumentato.
All’Inpgi i giornalisti sono scesi da 21 mila circa nel 2003 e intorno a 300 dipendenti in stato di crisi, a meno di 15 mila nel 2019, quindi prima della pandemia, e con 5.500 redattori in cassa integrazione.
I prepensionamenti — consentiti a piene mani dai Governi e contrastati dalla Fnsi — hanno falcidiato i giornali mentre l’Inpgi ha attuato politiche per facilitare le assunzioni e mantenere i livelli occupazionali. Senza alcun successo.
Perché gli editori vogliono un mondo del lavoro di collaboratori precari e di assunti sottopagati. D’altro canto hanno ridotto del 30%l’occupazione e altrettanto i salari.
Questi i veri problemi che a mio parere Cazzola elude. È più comodo parlare di privilegi, casta e altre assurdità. Eppure la politica di un Paese moderno dovrebbe essere quella di garantire una occupazione stabile e ben retribuita e delle pensioni adeguate.
Sulla ex fissa, un istituto contrattuale Fnsi-Fieg, infine, l’Inpgi non c’entra proprio nulla: è solo un ente pagatore che non entra in alcun aspetto.