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Quota 100

Il vaccino anti Covid e il licenziamento del dipendente

Se un dipendente rifiuta il vaccino anti Covid, l'azienda può licenziarlo? L'opinione dell'editorialista Giuliano Cazzola dopo l'intervento del professore Giuseppe Pellacani

Il mio amico, prof. Giuseppe Pellacani, nell’articolo ospitato da Start (“Vi spiego perché non si può licenziare chi non si vaccina contro il Covid-19”) ha delineato un quadro molto ampio ed argomentato riguardanti gli aspetti giuridici attinenti all’obbligo (o meno) di vaccinazione anti Covid-19 nell’ambito del rapporto di lavoro.

Devo osservare che, a mio avviso, il titolo dell’articolo (di cui Giuseppe non porta la responsabilità) fornisce una rappresentazione unilaterale di una opinione più articolata che ha il merito di evidenziare tutti ragionevoli dubbi che caratterizzerebbero sia la scelta dell’obbligatorietà sia quella della volontarietà.

Per quanto riguarda l’opzione obbligatoria ancor prima che le norme essa è resa quanto meno affrettata se non velleitaria a fronte di un’operazione per il cui completamento non basterà l’intero 2021. Ma, credo, che l’opzione volontaria, se introdotta in termini generali, sia afflitta da limiti insuperabili. Sono pertanto condivisibili le conclusione dell’articolo del prof. Pellacani: “Per evitare dubbi ed incertezze interpretative, e dunque per evitare di scaricare la responsabilità sulle imprese, è altresì opportuno che il legislatore, laddove decida di sancire un qualche obbligo di vaccinazione (auspicabilmente, proseguendo nel dialogo con le parti sociali avviato sin dal primo momento e proficuamente condotto durante tutta la gestione della crisi pandemica), determini con chiarezza, oltre ai presupposti e all’ambito di applicazione, anche le ragioni che giustificano un rifiuto di sottoporsi a vaccinazione  sulla scorta dell’orientamento che ammette siffatta possibilità in presenza di specifiche e certificate motivazioni mediche che rendano la vaccinazione sconsigliata o pericolosa per la salute”.

A mio avviso, la questione-chiave risiede nell’aver ricondotto, per legge, la contrazione del virus sul posto di lavoro o in itinere alla fattispecie di infortunio (con la specificazione: da Covid-19), non solo per il personale – come quello sanitario – che lavora a contatto con il virus, ma per chiunque possa dimostrare l’eziologia del contagio. Come sottolinea Pellacani, la causa violenta a base dell’infortunio (da Covid-19) avrebbe potuto mettere le aziende in una condizione di responsabilità oggettiva, se non si fosse chiarito che “Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonchè mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”. In sostanza il legislatore ha ritenuto necessario fornire una sorta di interpretazione autentica dell’applicazione dell’articolo 2087 cod.civ, proprio per le preoccupazioni espresse dal mondo dell’impresa.

Il Piano Colao aveva gettato l’allarme: “Il possibile riconoscimento quale infortunio sul lavoro del contagio da Covid-19, anche nei settori non sanitari, pone un problema di eventuale responsabilità penale del datore di lavoro che, in molti casi, si può trasformare in un freno per la ripresa delle attività. D’altro canto, per il lavoratore che è esposto al rischio di contagio per il tragitto che deve fare per andare al lavoro e per il permanere a lungo nel luogo di lavoro, magari a contatto con il pubblico, il trattamento del contagio quale infortunio garantisce un livello di tutela, per sè ed i propri famigliari, ben maggiore del trattamento di semplice malattia. Si tratta quindi di individuare una soluzione di compromesso che salvaguardi le due esigenze”.

È sufficiente che all’impresa sia riconosciuta la corretta applicazione dei ‘’Protocolli’’ per essere esonerata dalla responsabilità di danni gravi o del decesso per Covid-19 di un suo dipendente che – probatio diabolica – sia in grado di dimostrare di essere stato contagiato sul lavoro o quando vi si recava o ritornava? Se così fosse, tocca ai protocolli e quindi al governo e alle parti sociali coprire un vuoto enorme che – con la scoperta del vaccino – si è creato tra le misure di carattere precauzionale, rivolte a garantire i lavoratori (sul versante della sicurezza e della salute) ma anche i datori (su quello della responsabilità penale sempre in agguato in materia di infortuni sul lavoro).

È noto che l’articolo 2087 cod.civ. è una “norma di chiusura’’ del sistema antinfortunistico;  può destabilizzare qualsiasi organizzazione aziendale se si verifica un infortunio di particolare gravità. L’articolo non individua dei limiti alla ricerca di misure di salvaguardia. ‘’L’imprenditore – recita l’articolo – è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro’’. In sostanza l’imprenditore non è affrancato da responsabilità penale e civile se si limita a rispettare le leggi vigenti in tema di sicurezza del lavoro; il suo orizzonte è quello della esperienza e della tecnica e dalle indicazioni che ne derivano anche nel silenzio del legislatore.

Basti pensare alla giurisprudenza in tema di esposizione ad amianto. La pericolosità dell’amianto (in attuazione di specifiche direttive comunitarie) è stata riconosciuta con la legge 27 marzo 1992, n. 257, dove sono state dettate norme per la cessazione dell’impiego dell’amianto e per il suo smaltimento controllato, nonchè il divieto di estrazione, importazione, esportazione, commercializzazione e produzione di amianto. Eppure si sono svolti tanti processi (con fior di condanne e risarcimenti) a carico di imprenditori ultraottantenni che avevano fatto uso di amianto nei loro cicli produttivi di decenni precedenti e di attività produttive già cessate, solo perché esistevano studi scientifici che collegavano l’uso di questo materiale alla formazione di un mesotelioma pleurico. L’articolo 2087 cod. civ. ha consentito di applicare in maniera retroattiva delle norme penali.

I casi di infortunio sul lavoro da covid-19 non sono stati, nel 2020, eventi eccezionali. È sufficiente risalire alla puntuale documentazione dell’Inail secondo la quale queste fattispecie di contagi sul lavoro denunciate  alla data del 30 novembre sono state ben 104.328, pari al 20,9% del complesso delle denunce di infortunio sul lavoro pervenute dall’inizio dell’anno e al 13% dei contagiati nazionali comunicati dall’Istituto superiore di sanità (Iss) alla stessa data. Rispetto alle 66.781 denunce rilevate alla data del 31 ottobre i casi in più sono risultati 37.547, di cui 27.788 riferiti a novembre e 9.399 a ottobre.

La “seconda ondata” delle infezioni da Covid-19 ha avuto un impatto più significativo della prima anche in ambito lavorativo. Nel bimestre ottobre-novembre, infatti, si è rilevato il picco dei contagi di origine professionale, con quasi 49mila denunce di infortunio (pari al 47% del totale) rispetto alle circa 46.500 registrate nel bimestre marzo-aprile. Il divario, peraltro, è destinato ad aumentare nella prossima rilevazione per effetto del consolidamento particolarmente influente sull’ultimo mese della serie. I decessi sono stati 366 pari a circa un terzo del totale dei decessi denunciati all’Inail dall’inizio dell’anno, con un’incidenza dello 0,7% rispetto ai deceduti nazionali da Covid-19 comunicati dall’Iss alla stessa data. Rispetto ai 332 decessi rilevati dal monitoraggio al 31 ottobre, i casi mortali segnalati all’Istituto sono stati 34 in più, di cui 20 nel solo mese di novembre. La metà dei decessi (50,3%) è avvenuta ad aprile, il 33,1% a marzo, il 6,0% a maggio, il 5,5% a novembre, l’1,6% a luglio e a ottobre, l’1,4% a giugno e lo 0,3% ad agosto e settembre.

Che dire, allora, in conclusione? Quando nell’ambito del rapporto di lavoro una delle parti – nel nostro caso il dipendente – si sottrae ad un obbligo contrattuale mettendo a rischio la sua salute e quella dei suoi colleghi, al datore di lavoro – che è responsabile della sua sicurezza – non è consentito cavarsela dicendo: “Io la vaccinazione gliela voleva fare, ma lui si è rifiutato’’. Il lavoratore potrebbe avere dei buoni motivi, come tali riconosciuti dalla legge o dai protocolli. Ma solo quelli. Perché, in caso contrario, il datore potrebbe avvalersi del suo potere disciplinare e, alla fine, risolvere il rapporto.

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