La prima, macroscopica conseguenza del Superbonus, è la situazione del bilancio pubblico: con un debito superiore al 130% del pil e un flusso futuro di entrate ridotto di circa 40 miliardi di euro all’anno dall’applicazione delle detrazioni, il governo si trova a navigare tra Scilla e Cariddi. Da un lato c’è lo scoglio del Patto di stabilità e crescita che, nella sua nuova versione, impone agli Stati con un rapporto tra debito e pil eccessivo (come l’Italia) di concordare con le autorità un piano di rientro della durata massima di sette anni. In base alle nuove regole, il debito dovrà calare di almeno un punto percentuale l’anno. Quindi, seppure con alcuni margini di flessibilità, l’Italia dovrà mettere in atto un duro percorso di aggiustamento fiscale.
Secondo il Piano strutturale di bilancio, tale rapporto è destinato nei prossimi anni a crescere fino al 137,8% nel 2026, per poi scendere lentamente al 134,9% nel 2029. Vuol dire che, a distanza di dieci anni, il debito pubblico dell’Italia sarà ancora superiore al livello pre-Covid. E questo sempre che l’economia italiana riuscirà a crescere attorno all’1% e proseguendo nell’aggiustamento dei conti. Ciò è dovuto essenzialmente «all’impatto sul fabbisogno di cassa dello Stato delle compensazioni d’imposta legate ai Superbonus edilizi». Quindi, una prima conseguenza è che l’Italia dovrà perseguire una strategia di finanza pubblica assai più restrittiva di quanto sarebbe accaduto nell’assenza dell’esplosione dei crediti edilizi.
Dall’altro lato, e in parte anche per conseguenza di quanto appena detto, il governo italiano si trova sostanzialmente privo di qualunque spazio di manovra fiscale: come minimo, dovrà rinunciare ai propri propositi e alle proprie promesse elettorali, semplicemente perché il quadro si è completamente deteriorato nel frattempo. Non importa quale sia la valutazione che ciascuno di noi dà degli impegni elettorali del centrodestra, quali la flat tax, la riforma della Legge Fornero sulle pensioni o l’aumento della spesa sanitaria: il fatto è che, anziché poter essere giudicate sulla base delle proprie azioni, le forze della maggioranza arriveranno alla fine della legislatura avendo gestito un transatlantico alla deriva di cui non possedevano il controllo.
Gran parte della politica di bilancio di Meloni e Giorgetti è semplicemente obbligata dall’eredità del Superbonus. Lo stesso, ovviamente, varrà per il governo successivo. A maggior ragione, questo vincolo si farà sentire nel caso di ulteriori shock, per esempio se si aggravasse la congiuntura o, peggio, se si verificassero fenomeni della portata della pandemia o della crisi energetica del 2021-2022. Quindi, dal punto di vista della finanza pubblica, il Superbonus ha completamente privato il governo della facoltà di manovrare il bilancio dello Stato. È questa la ragione per cui i Costituenti avevano previsto fin dagli albori della Repubblica, con l’articolo 81, il dovere di garantire adeguata copertura a ogni spesa. In questo senso, la sequela di errori, omissioni e sottovalutazioni di cui si sono resi corresponsabili politici e tecnici costituisce un aperto tradimento dello spirito della Carta.
Una delle ulteriori conseguenze riguarda proprio la questione dell’efficienza energetica negli edifici. La recente direttiva europea “case green” richiede di migliorare la performance media degli edifici esistenti del 16% entro il 2030 (rispetto al 2020) e del 20-22% entro il 2035, seppure con generose deroghe. L’Italia ha già consumato risorse più di ogni altro, con risultati probabilmente inferiori a chiunque altro. Il che solleva una domanda non banale relativa a come faremo, dopo aver speso 220 miliardi di euro per il 4% del parco edilizio residenziale, a intervenire sul restante 96%. Circa la metà delle famiglie italiane vive in immobili costruiti prima del 1976, e quindi non soggetti ad alcun obbligo relativo alla certificazione dell’efficienza energetica.
Sappiamo molto poco delle prestazioni di questi edifici. Poiché, però, per vendere o affittare un immobile è obbligatorio procurarsi un Attestato di prestazione energetica (APE) abbiamo informazioni più precise relativamente agli immobili che, nel tempo, se ne sono dotati (circa 5,3 milioni su un totale di 36 milioni, tra residenziali e no). Il 54% delle abitazioni dotate di APE si trova in una classe energetica molto bassa (G e F) e solo l’11% ha invece prestazioni comprese tra A1 e A4. Uno degli effetti della direttiva, e in generale della crescente sensibilità per l’efficienza e la sostenibilità, è quello di divaricare i valori degli immobili in funzione della relativa classe energetica: si stima che, a parità di altre condizioni, la differenza di prezzo tra un immobile in classe A1-A4 e uno in classe G sia attorno al 25%2 .
Poiché il Superbonus ha favorito maggiormente le famiglie a medio-alto reddito e poiché gli immobili più efficienti aumentano il gap di valore rispetto a quelli meno efficienti, ciò significa che esso ha probabilmente amplificato un fenomeno di segregazione edilizia già esistente. Le case dei ricchi acquistano sempre più valore, quelle dei poveri diventano meno appetibili. Quindi questi ultimi faticheranno a trovare residenze migliori e, anzi, si troveranno sempre più in difficoltà a causa dell’elevata incidenza della spesa energetica: tra luce e gas, le famiglie appartenenti al primo decile di spesa equivalente impiegano circa l’8,6% delle loro uscite annuali, contro il 5,7% della famiglia mediana e appena il 3% dei più benestanti. Dunque la divaricazione immobiliare rischia di porre, oltre a una questione ambientale, anche una questione sociale.
Come uscirne? Uno studio della Banca d’Italia svolge una utile rassegna delle principali esperienze internazionali. Vengono suggerite alcune best practice: la maggiore trasparenza del mercato e la produzione di informazioni più precise e accessibili sullo stato delle prestazioni energetiche degli immobili e i potenziali benefici (economici e ambientali) di interventi di riqualificazione; la revisione degli incentivi fiscali, in modo tale che siano meglio focalizzati sia riguardo agli impatti ambientali degli interventi, sia alle caratteristiche soggettive dei beneficiari (con una forte canalizzazione a favore delle famiglie a basso reddito), sia ai rendimenti effettivi dei lavori. In altre parole, un incentivo indifferenziato, non selettivo e ingiustificatamente generoso, rappresenta un caso da manuale di misura mal concepita e mal disegnata.