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Il Punto sui mercati globali

L’analisi a cura di Roberto Rossignoli, Portfolio Manager di Moneyfarm   Si possono trovare ben pochi porti sicuri in uno dei peggiori trimestri degli ultimi dieci anni per molte asset class, soprattutto per l’azionario. La percezione è quella di una generalizzata avversione al rischio, acuita a dicembre da fondamentali sia societari che economici in calo…

 

Si possono trovare ben pochi porti sicuri in uno dei peggiori trimestri degli ultimi dieci anni per molte asset class, soprattutto per l’azionario. La percezione è quella di una generalizzata avversione al rischio, acuita a dicembre da fondamentali sia societari che economici in calo e da una riduzione della liquidità.

Il momentum economico sembra mostrare segnali di stanchezza. Il contesto attuale giunge in conclusione di un 2018 che è stato caratterizzato da un lieve e strisciante deterioramento del quadro, soprattutto nell’Eurozona e nei mercati emergenti. Gli Stati Uniti hanno costituito un’eccezione, anche se nel corso dell’ultimo semestre si sono intraviste le prime crepe sul mercato immobiliare, sul settore manifatturiero (l’indice ISM manifatturiero ha deluso le attese nel modo più marcato degli ultimi quattro anni) e sul trasporto merci.

La dinamica dei flussi ha contribuito alla spirale negativa. Dopo aver tenuto duro a ottobre e novembre, gli investitori hanno ritirato da fondi azionari globali 86 miliardi di dollari (dati Deutsche Bank). Si tratterebbe del deflusso mensile più consistente dal 2008, e in particolare i 56 miliardi di deflussi dai fondi azionari statunitensi consistono un nuovo record. Dietro le vendite non ci sono solo motivi di avversione al rischio, ma anche una dinamica stagionale: si è aperta per gli investitori una finestra per sfruttare le perdite per proteggere i guadagni degli ultimi anni, liberandosi di azioni in perdita per compensare fiscalmente le plusvalenze di fine anno.

Dall’ultimo trimestre si possono comunque trarre due spunti positivi. Nonostante sia ormai opinione comune che i prossimi anni saranno caratterizzati da tassi d’interesse in crescita rispetto ai livelli attuali, l’obbligazionario governativo ha mostrato di poter continuare a offrire spunti di diversificazione.

Inoltre sembra che la Fed abbia preso atto dell’indebolimento dei fondamentali economici, le cui prime avvisaglie si erano già viste a settembre. Il contesto prospetta un percorso di rialzo tassi più morbido.

In generale l’intensità della correzione sembra coerente con la fase attuale del ciclo economico e finanziario: come spiegheremo più avanti, sarebbe scorretto raccontare quanto successo negli ultimi mesi attraverso la retorica del cigno nero o dell’anomalia.

PERCHÉ PROPRIO ORA?

Alle radici della correzione ci sono ragioni profonde legate al ciclo economico/finanziario e cause contingenti. Durante il 2017 avevamo più volte notato come il rischio politico fosse sottovalutato dai mercati. Questo non è più vero, in un contesto in cui anche gli utili hanno smesso di sorprendere. L’accumularsi dei focolai di tensione politica ha messo i mercati sull’attenti, rendendoli ipersensibili all’alternarsi delle notizie e agli spunti di incertezza, che peraltro in questo momento non mancano.

Per quanto riguarda la Brexit, che resterà uno dei temi principali dei prossimi mesi, la sconfitta attesa del governo May sull’accordo aumenta le probabilità di un’uscita dura, scenario forse non completamente prezzato dai mercati.

All’interno dell’Eurozona, la distanza tra Roma e Bruxelles sembra essersi accorciata nelle ultime settimane di dicembre. Le violente proteste in Francia, seguite dalla decisione di Macron di allargare il deficit per favorire alcune delle categorie attive nella protesta, hanno portato la Commissione Europea a concedere più flessibilità.

Oltre oceano le elezioni di mid-term hanno lasciato un Congresso diviso, e la paralisi del bilancio Usa, che è nata intorno alla questione del muro messicano, sta mostrando per la prima volta le conseguenze del nuovo scenario politico.

Resta poi il peso delle tensioni commerciali, con i casi Apple e Huawei e i dati sul commercio cinese peggiori degli ultimi due anni.

LA FED

Neanche la politica monetaria, questa volta, ha offerto un appiglio agli investitori: anzi, abbiamo assistito a una progressiva divergenza tra l’opinione degli investitori e quella della banca centrale. A dicembre, nell’ultimo meeting dell’anno, la Fed ha deciso di alzare ulteriormente i tassi. La mossa era in sé largamente attesa. Tuttavia il fatto che il rialzo dei tassi sia stato deciso all’unanimità da tutti i membri del comitato decisionale ha spaventato i mercati.

Fino a ottobre i mercati sembravano preparati a quattro rialzi (uno nel 2018 e tre nel 2019), ma, con il peggiorare del quadro politico ed economico, le aspettative si sono orientate verso un percorso più morbido e, a onor del vero, Powell è sembrato offrire indicazioni positive in tal senso, abbassando il numero di rialzi previsti per il 2019 da tre a due.

Le mosse della Fed saranno uno dei temi chiave per i prossimi mesi. La previsione dei mercati è orientata verso lo stop dei rialzi per il 2019, con la probabilità di un ribasso ora più alta della probabilità di un rialzo. La Federal Reserve ha avuto storicamente una tendenza ad assecondare le aspettative dei mercati, anche se la loro stabilità non rientra esplicitamente nel suo mandato: capire in che punto si colmerà il divario tra le aspettative della Fed è cruciale per orientarsi nel 2019.

LA RAFFICA DEI DATI

Tutti questi fattori, insieme al declino fisiologico della crescita degli utili, hanno causato uno dei peggiori trimestri degli ultimi anni.

L’azionario dei mercati sviluppati ha perso il 13,3% nel trimestre, di cui il 7,6% solo nell’ultimo mese, portando la performance da inizio anno al -8,2% (in dollari). I mercati emergenti hanno retto meglio dato il forte ribasso fatto registrare nei primi mesi dell’anno, perdendo il 7,6% nel quarto trimestre.

L’obbligazionario governativo, nonostante le valutazioni molto alte (i tassi d’interesse rimangono a livelli storicamente bassi), ha confermato le sue capacità di offrire spunti di diversificazione interessanti. Con l’eccezione di Italia e mercati emergenti, da inizio anno i principali indici obbligazionari di Europa, Stati Uniti e Giappone hanno chiuso in positivo.

Storia diversa per il debito societario, che ha sofferto il contesto di risk off soprattutto nell’High Yield, mentre l’Investment Grade ha beneficiato maggiormente del ribasso dei tassi, chiudendo il trimestre quasi invariato.

Infine il petrolio ha sofferto il calo della domanda dovuto al ciclo economico. L’indice delle materie prime nel suo complesso ha perso il 10,5% nel trimestre (in dollari).

IL TRIMESTRE IN PROSPETTIVA

Per comprendere il senso di questa dinamica è fondamentale mettere i risultati di questo trimestre in prospettiva: se guardiamo all’azionario americano (quello su cui abbiamo più dati da un punto di vista storico), questo livello di volatilità non è di certo una novità e sicuramente ci saranno altri periodi simili in futuro.

Si tratta, tuttavia, di una dinamica statisticamente non comune. Su base mensile, ottobre (-6,9%) e dicembre (-9,2%) marcano rispettivamente il peggior 6% e il 3% mese di sempre.

Questo vuol dire che fatto 100 il numero di mesi nella storia dell’S&P500, 94 mesi sono stati migliori di dicembre. In un orizzonte temporale di 10 anni, non è quindi assurdo aspettarci di incontrare dai 4 a ai 10 mesi con performance analoghe; questo tipo di dinamica è dunque perfettamente in linea con i rendimenti storici che, nel tempo, sono stati in generale positivi nonostante queste correzioni.

Su base trimestrale vale lo stesso concetto: nel quarto trimestre del 2018, come già detto, l’S&P500 ha fatto registrare un -14%. Guardando allo storico, 7 trimestri su 100 hanno fatto registrare numeri peggiori. Questo significa che su 10 anni possiamo aspettarci da 3 a 4 trimestri di questo tipo.

Anche il VIX, l’indice che misura la volatilità dei mercati, ovvero l’intensità del movimento dei prezzi, si è mosso intorno ai 21 punti, valore molto alto rispetto alla storia recente ma storicamente non estremo. Marca il 65 percentile, nel senso che dal 1990 il 35% dei trimestri ha avuto una volatilità più alta.

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