Fernando Santi moriva a Parma il 15 settembre del 1969 (dove era nato nel 1902 nella frazione di Golese).
Santi è stato il sindacalista socialista più importante nella seconda metà del secolo scorso e leader della omonima corrente della Cgil. Si iscrisse giovanissimo al Partito Socialista Italiano. Nel 1922 partecipò alle “giornate di Parma” contro le spedizioni squadristiche di Italo Balbo, che furono accolte a fucilate e costrette a conquistare la città manu militari. Si trattò di una pagina eroica di guerriglia urbana. In quegli anni Santi rivestì varie cariche nazionali nel partito e nel sindacato.
Quando il fascismo conquistò il potere e varò le leggi eccezionali, Santi continuò a svolgere la propria attività politica durante tutti gli anni trenta, malgrado gli arresti e le persecuzioni delle polizia. Partecipò alla Resistenza ed era a Milano il 25 aprile 1945. Nel 1947 divenne uno dei segretari della Confederazione generale italiana del lavoro (rinata unitaria col Patto di Roma), insieme a Giulio Pastore (che in seguito fu il fondatore della Cisl) e Giuseppe Di Vittorio.
Dopo la scissione sindacale del 1948 ricoprì la carica di segretario generale aggiunto della Confederazione con Giuseppe Di Vittorio, prima, e con Agostino Novella, poi. Commemorare Fernando Santi per un ex sindacalista socialista della Cgil è un riconoscimento importante perché gli dà il senso di entrare non solo nella storia del Partito socialista, ma nel mito del sindacalismo.
Io non ho conosciuto direttamente Santi.
Iniziai a lavorare alla Fiom di Bologna, qualche mese prima che Santi rassegnasse le dimissioni in occasione del Congresso del 1965, svoltosi a Bologna, a cui presi parte come delegato. Ho conosciuto i suoi figli: Pietro e Paolo. E ho sempre pensato che l’associare quei nomi al cognome fosse un tocco di quell’ironia che contraddistingueva il padre.
Piero – se ben ricordo – era un giornalista della Rai. Con Paolo, invece, ho collaborato a lungo nei nove anni (dal 1965 al 1974) in cui ho militato nella Fiom. Paolo era il ritratto vivente del padre ed ne aveva ereditato lo stampo riformista nell’approccio ai problemi dell’economia e del lavoro.
Il mio transfert con Santi avvenne, lui dalla tribuna ed io in platea, in quel Congresso. Ormai anziano e con qualche problema di salute (infatti morì pochi anni dopo non ancora settantenne), Santi aveva deciso di lasciare la Cgil. Il suo discorso dalla tribuna si stampò nella mia memoria, tanto che potrei ripetere oggi stesso i brani più significativi.
Santi, che apparteneva alla minoranza lombardiana del Psi, si definì “riformista padano”, a suo dire, una ‘’razza’’ nobile a rischio di estinzione. Il discorso proseguì con toni ispirati e crescenti, con le finezze di un grande oratore, efficaci e commoventi. «Se potessi parlarvi col linguaggio degli innamorati, io vi direi compagni che vi lascio ma non vi abbandono. Vi prometto però che non vado in pensione, ma che resterò un militante del movimento operaio e socialista».
Ma le parole di chiusura furono travolgenti, da annotare nei grandi interventi che hanno accompagnato la storia. Perché – come è stato detto – di parole che tutti odono sono scritte le frasi che nessuno ha udito mai. «Da quando ho deciso di lasciare la Cgil ho ricevuto molti attestati di stima ed amicizia […] Potrei allora dirmi pago. Ma io sono un uomo di molte ambizioni. Vorrei allora che almeno una volta, in tutti questi anni, un operaio o un bracciante, pensando a me, abbia detto: è uno dei nostri; di lui ci possiamo fidare. Per rispondergli oggi: puoi fidarti ancora, compagno».
Dal Congresso si levò un’ovazione.. Detto fra noi a tanti decenni di distanza, Santi con quel discorso ‘’faceva politica’’. In quei tempi, i quadri della Cgil, in prevalenza comunisti, guardavano con sospetto all’esperienza governativa di centro sinistra in cui erano impegnati, dal 1964, i socialisti. Santi ne prendeva, in qualche modo, le distanze, annunciando l’intenzione di condurre una battaglia all’interno del partito. Lasciata la Cgil, infatti, Santi si dedicò al lavoro politico nel Psi (su posizioni della minoranza di Riccardo Lombardi) e nella Camera dei Deputati di cui fece parte per venti anni dal 1948 al 1968.
La morte sopraggiunse l’anno dopo.