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Carlo Messina Ad Intesa Sanpaolo Sul Mes

Il Mes? Sopravvalutato. Parola di Messina (Intesa Sanpaolo)

Come e perché l'amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, ha ridimensionato la portata del no dell'Italia al Mes. L'approfondimento di Giuseppe Liturri

Sembrava si fosse placata l’ondata di polemiche e livore, sollevatasi dopo il voto con cui la Camera dei deputati il 21 dicembre scorso ha bocciato il disegno di legge di ratifica della riforma del Trattato del Mes. Invece no. L’Eurogruppo di lunedì è stato l’occasione per riattizzare il fuoco che ancora cova sotto la cenere.

Evidentemente non sono stati sufficienti 25 giorni – in cui l’Italia ha collocato agevolmente a tassi decrescenti in pochi giorni ben 28,2 di miliardi di titoli di Stato (circa due rate del Pnrr!), con lo spread tornato intorno a 155 – a ricondurre alla realtà le vedove del Mes. Un segnale esplicito che gli investitori hanno dato una lettura netta e favorevole del rapporto rischio/rendimento dei nostri Bot e Btp. I quali stanno beneficiando in pieno della discesa di tutta la parte medio-lunga della curva dei tassi che coinvolge da qualche settimana tutti i principali titoli governativi mondiali. Basti pensare che solo tre mesi fa il rendimento del Btp decennale era quasi al 5% e oggi ha chiuso intorno al 3,90%, in risalita dai minimi di fine dicembre intorno a 3,50%, solo per le dichiarazioni di Christine Lagarde che ha frenato le attese di un taglio dei tassi prima di giugno. In uno scenario di domanda effervescente, c’è fiducia verso l’Italia e non spaventa affatto un debito/PIL in prospettiva stabile intorno al 140%.

Certamente non mancano le minacce all’orizzonte, ma in questo momento i problemi maggiori sono a Parigi e a Berlino e a Roma l’orologio non è fermo né sul 2011, né sul 2018. I mercati sanno che – a prescindere dal livello del debito – il Paese produce, fattura, esporta e dispone di un flusso di entrate rilevante, in crescita e capace di rendere sostenibile e coprire il flusso dei pagamenti degli interessi. In questo caso, il flusso conta più dello stock. E senza debito non ci può essere credito e risparmio, “per la contraddizion che nol cosente”.

E non sanno che farsene del Meccanismo Europeo di (in)stabilità, quello sì foriero – sia nella versione in vigore, che in quella bocciata – di potenziali problemi per il nostro debito.

Invece siamo stati costretti a leggere (La Repubblica) del ministro Giancarlo Giorgetti messo “di fatto” sotto processo a Bruxelles, di una UE intenta a studiare un fantomatico “piano B” e degli esponenti di punta di Eurogruppo e Mes – il presidente Paschal Donohoe e il direttore generale Pierre Gramegna – pronti a manifestare le rispettive doglianze. Il primo ha fatto notare che “se l’Europa dovesse affrontare una difficoltà finanziaria seria in una banca, ci mancherebbe uno strumento veramente importante che aiuterebbe a proteggere i contribuenti, le famiglie e le piccole imprese dal costo”. Il secondo ha espresso il proprio “rammarico” perché si è “sprecata un’opportunità per rafforzare l’Unione Bancaria”.

L’ipotesi del piano B – ove mai fosse esistita – è priva di senso. Non ha infatti alcun fondamento giuridico ed alcuna concreta praticabilità un’iniziativa separata dei 19 Paesi che hanno già ratificato la riforma.

Insomma pare proprio che, con la mancanza del prestito “paracadute” del Mes al Fondo di risoluzione unico (Srf) per la gestione dei dissesti bancari, l’Eurozona sia stata privata di “un’arma decisiva” a causa della scelta “inconcepibile” dell’Italia. Secondo quanto riportato da Milano Finanza, sarebbe già pronta la ritorsione contro l’Italia, negandole la sede della costituenda Autorità antiriciclaggio, pronta a insediarsi in Germania. Pur avanzata come mera ipotesi, l’importante è avvalorare il “ce la faranno pagare” di Giorgetti che esiste solo nella fantasia dei retroscenisti di professione.

Ma le rimostranze di Donohoe e Gramegna sembrano poco fondate, anzi si rivelano un boomerang.

A Donohoe – a cui pare stare così a cuore la protezione di contribuenti, famiglie e imprese – andrebbe fatto notare che lo strumento “veramente importante” di cui lamenta l’assenza, arriverebbe solo dopo il passaggio di uno tsunami sul risparmio.

Infatti, il ministro irlandese sa, ma finge di non sapere, due cose. La prima è che il prestito del Mes (fino a 68 miliardi) al Srf sarebbe arrivato solo quando quest’ultimo fondo avesse esaurito la propria disponibilità (circa 75 miliardi). La seconda è che il Srf interverrebbe in un dissesto bancario solo dopo il famigerato “bail-in” di azionisti, obbligazionisti e depositanti oltre € 100.000, fino al 8% del passivo. Niente male come protezione per famiglie e imprese. Invocare uno strumento che, per ristrutturare una banca, rade al suolo i risparmiatori. Se e quando servirà, Donohoe sa che una crisi bancaria sarà gestita con i contributi delle altre banche e, come estrema ratio, con l’intervento dello Stato.

A Gramegna vorremmo invece fare notare che – se gli sta tanto a cuore rafforzare l’Unione Bancaria – il prestito del Mes è solo un insignificante arnese in fondo alla cassetta degli attrezzi e dovrebbe invece dolersi della mancanza del terzo pilastro che è l’assicurazione comune sui depositi. I primi due pilastri sono la Vigilanza Unica e il Comitato di risoluzione unico con il Srf, faticosamente concepiti e avviati tra 2014 e 2015, dopo ben 16 anni di vita dell’Eurozona. Il terzo è sepolto in un cassetto almeno dal 2019 (quando la Germania fece finta di sbloccare il dossier), per esclusiva colpa dei tedeschi che insistono per assegnare un coefficiente di rischio ai titoli di Stato posseduti dalle banche. Un modo eccellente per destabilizzare il nostro sistema bancario.

In un’unione bancaria piena e completa, come quella degli Usa, questi sono i tre pilastri che la reggono. E nessuno oltreoceano si è inventato il Mes e i suoi improbabili prestiti paracadute. Là c’è l’agenzia federale di garanzia dei depositi (Fdic), con la garanzia piena e illimitata del governo federale. E tanto basta e avanza.

Ma il vero colpo di maglio contro chi ancora si ostina a parlare di Mes, lo ha lanciato chi queste cose le sa, come il Ceo di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, martedì in collegamento da Davos con Sky Tg Economia ha messo una pietra sopra al Mes, definendolo, dal punto di vista dell’efficacia e della necessità di utilizzo, “sopravvalutato” (Credo che quello del Mes sia un problema che, dal punto di vista dell’efficacia dello strumento e della necessità di utilizzo, sia sopravvalutato: “oggettivamente non ci sono condizioni per cui, nel futuro, possa essere utilizzato”, ha detto Messina a Davos). Una vera e propria pietra tombale, per il personaggio da cui proviene che, e questo la dice lunga sullo scompiglio che generato, è stata silenziata sul nascere. In genere, quando Messina parla, ci sono sempre titoli sui giornali. In questo caso, le scomode parole del manager hanno subito il trattamento classico previsto dai manuali di comunicazione: ignorare il fatto.

Allora Gramegna e Donohoe che si lamentano dell’incompletezza dell’Unione Bancaria, dovrebbero in primo luogo fare mea culpa e indirizzare il dito verso Berlino e non verso Roma che, bloccando la riforma del Mes, ha solo sfiorato una pagliuzza, mentre la trave viene bloccata

(Versione integrata e aggiornata di un articolo pubblicato su La Verità del 17 gennaio 2024)

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