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Autostrade

I limiti delle privatizzazioni del passato e i pericoli del neo statalismo

L'analisi di Battista Falconi fra cronaca e storia su Autostrade e non solo

Perché le autostrade sono state affidate a un concessionario privato, che guadagna dai pedaggi e che ora dubitiamo abbia investito in manutenzione nella misura necessaria e prevista dal contratto (le due cose potrebbero non coincidere)? Perché è finito a un gruppo di imprenditori anziché essere gestito direttamente dallo Stato un asset dai redditi sostanzialmente sicuri e prevedibili, con l’enorme vantaggio del monopolio e quindi della possibilità di applicare aumenti senza quasi il timore della concorrenza (è difficile che si scelgano tragitti alternativi in funzione del pedaggio, soprattutto nel traffico commerciale)? È opportuno che un’infrastruttura strategica per la vita e lo sviluppo di un paese siano in mano a un gruppo ramificato, quotato in borsa, guidato quindi da logiche ben distanti e diverse?

Chi si pone queste domande, oggi, non sa, non ricorda o finge di non sapere e di non ricordare la storia che precede e determina le privatizzazioni italiane. Il nostro sviluppo moderno nasce nel secondo dopoguerra e prosegue per decenni su un modello in gran parte pubblico che si estende dai servizi e dalle infrastrutture fino all’industria. Un’altra epoca. I capitali dello Stato arrivavano grazie anche all’indifferenza verso debito e deficit, emettendo titoli con interessi astronomici, facendo galoppare l’inflazione. Quel sistema determinò l’ipertrofia patologica dei cosiddetti “panettoni di Stato” e contraddizioni evidenti, come le famigerate Alfasud per le quali i contribuenti italiani pagavano 1.200.000 lire per ciascuna vettura uscita dagli stabilimenti di Pomigliano d’Arco.

Pomigliano, appunto. Lo sviluppo pubblico italiano è servito a qualcosa. A ridurre il gap socio-economico tra Sud e Nord, e in questo l’asse viario è stato fondamentale. A colmare l’enorme sottosviluppo interno sul quale d’altronde poggiava, sfruttando per decenni domanda e consumi di decine di milioni di persone. A creare posti di lavoro, un indotto economico e un consenso politico tali da assicurare la sopravvivenza della “prima repubblica” per circa mezzo secolo, nonostante i suoi evidenti limiti di leadership.

Schematizzando, le articolazioni attraverso quel moloch si muoveva erano tre. Lo Stato propriamente detto, cioè le amministrazioni pubbliche che controllavano e gestivano in modo ramificato e capillare. Il parastato, zona grigia che assicurava gli stessi vantaggi “assolutistici” dello Stato senza imporre gli stessi vincoli. E poi, soprattutto, il mondo industriale e imprenditoriale formalmente privato, che dipendeva in gran parte dalle decisioni pubbliche: il pubblico-privato in realtà esiste ancora oggi, come vediamo e capiamo ogni volta che si decreta una “rottamazione” per rianimare l’asfittico mercato manifatturiero, che si stabilisce l’ennesimo condono edilizio o che si vara una normativa tecnologica imponendo la sostituzione di un certo dispositivo.

Ma nella seconda metà del secolo scorso l’intreccio era assai più stretto. L’esempio più significativo resta la Fiat: il fatto che Lingotto, famiglia Agnelli e potere politico abbiano sempre camminato a braccetto (in epoca sabauda e fascista, prima ancora che repubblicana) ha imposto l’automobile privata quale mezzo prioritario di trasporto, ha dirottato su gomma una quota abnorme del traffico commerciale, ha privilegiato la viabilità sulle direttive longitudinali a danno degli attraversamenti appenninici, ha contribuito in misura pesante (con l’edificazione selvaggia) al consumo di suolo, che è una delle principali problematiche ambientali italiane.

Il ripensamento di quel sistema avvenne con lentezza. I benefici che se ne traevano erano molto diffusi, così come l’illusione di rimandarne “sine die” il prezzo da pagare, non c’erano ancora la globalizzazione, che avrebbe imposto alle imprese il confronto internazionale, né l’Europa, con i suoi beati e vituperati vincoli. Per lungo tempo solo pochi studiosi appartenenti alla scuola liberale si azzardavano a chiedere un mercato più rispondente al suo nome, dove a comandare fosse la vera dinamica tra offerta e domanda. Poi la prima Repubblica è stata investita da un ciclone epocale ed è montata un’ondata di consenso verso le cosiddette privatizzazioni. Il legame tra i due eventi sta nel fatto che lo statalismo di prima repubblica era caratterizzato da disonestà e inefficienza patologiche. Salvo nascondersi dietro l’eufemismo delle mele marce, in passato la corruzione nello Stato e nel parastato era altissima, più di oggi, poiché non c’erano i sistemi di controllo che ora rendono ogni acquisto o affidamento con soldi pubblici un’odissea, in ossequio ai principi supremi di trasparenza, evidenza pubblica e concorrenza: Mercato elettronico, procedure comparative, certificazione antimafia, protocolli elettronici, posta certificata…

Un funzionario addetto al controllo di un collaudo, un tempo, si vantava della propria integrità, che lo portava ad accettare dalle imprese solo cene e regali, mai soldi contanti. E i regalini, fosse anche solo il cesto natalizio, per un’impresa privata che volesse lavorare con un datore pubblico erano un rito ineludibile. Di questo livello “micro” possiamo testimoniare personalmente, per quello “macro” degli appalti rimandiamo alla cronaca giudiziaria.

Non sappiamo se le privatizzazioni siano state condotte in modo adeguato, insufficiente o eccessivo. Ma se non si tiene conto di certe oggettive ed elementari premesse, qualunque chiacchiera a margine della tragedia genovese è solo una speculazione da bar, di cattivo gusto e smemorata. Sulla vicenda Atlantia-Autostrade di confusione ce n’è già abbastanza e non vogliamo aggiungerne altra, stavolta però siamo noi a suggerire una domanda: come mai proprio i Benetton guidano questo gruppo, che c’azzeccano le magliette con le grandi infrastrutture, siano autostrade o gli Aeroporti di Fiumicino e Ciampino, anch’essi controllati dalla famiglia? Bisogna cioè tenere conto che il panorama imprenditoriale privato in Italia non è così variegato e vivace, e se una famiglia veneta originariamente distante da questo comparto oggi ha consolidato certe posizioni è anche per lo spirito combattivo che ne guida le strategie, mescolando marketing e messaggi sociali, business e investimenti culturali, con una lungimiranza e un’aggressività di cui pochi soggetti in Italia dispongono.

Vale per Benetton un po’ ciò che vale per Berlusconi, del cui monopolio televisivo e del cui conflitto di interessi si è cianciato in milioni di articoli e servizi, chiedendosi raramente con sincerità se, quanti e quali concorrenti sarebbero stati in grado di garantire al comparto uno sviluppo analogo. Questo non per difendere gli uni e l’altro dalle loro responsabilità, ma per avvertire che l’alternativa non è sempre così facile da trovare. E che entrambi hanno avuto coraggio, intuizioni e spregiudicatezza nell’affrontare i rischi, perché il business autostradale non garantisce solo guadagni, come le difficoltà della Brebemi ricordano.

Se le privatizzazioni hanno avuto i loro evidenti e numerosi limiti, il ritorno al pubblico deciso nell’“espace d’un matin” potrebbe essere una toppa peggiore del buco. Assunzioni clientelari e sanatorie dei precariati hanno inoculato nelle pubbliche amministrazioni germi di incompetenza, assenteismo e nullafacenza che si sono diffusi viralmente e dei quali ancora vediamo gli effetti. Si pensi alla nettezza urbana capitolina, affidata a una municipalizzata che formalmente agisce su una base contrattuale teoricamente da revocare per malagestione, ma di fatto insostituibile, visto che la società è composta da dipendenti del Comune. E anche le “never ending stories” di Ilva e Alitalia, con la loro imponente quanto inutile trasfusione di soldi dei contribuenti, ci ammoniscono su quanto sia complicato trovare un punto di equilibrio tra la mano pubblica e lo spietato mercato internazionale, ricordiamoci anche questo.

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