La riflessione parte dagli ultimi dati che l’Istat ci ha fornito nel maggio 2024. L’Istat, infatti, ha diffuso le stime provvisorie sul mercato del lavoro che ci dicono che nel marzo 2024, su base mensile, il tasso di occupazione è salito al 62,1%, segnando un nuovo record. Rispetto a febbraio 2024, l’occupazione è cresciuta di 70mila unità (+0,3%). Il numero degli occupati intravede la soglia dei 24milioni pari a 23 milioni 849mila che risulta essere superiore di 425mila unità (+1,8%) rispetto a marzo 2023, come conseguenza dell’incremento di 559mila dipendenti permanenti e di 46mila autonomi, a fronte della diminuzione di 180mila dipendenti a termine.
L’aumento coinvolge uomini, donne e tutte le classi d’età, a eccezione dei 35-49enni per effetto della dinamica demografica negativa: il tasso di occupazione, che nel complesso è in aumento dell’1%, sale anche in questa classe di età (+0,6 punti) perché la diminuzione del numero di occupati 35-49enni è meno marcata di quella della corrispondente popolazione complessiva.
In particolare, il numero di persone in cerca di lavoro diminuisce (-2,8%, pari a -53mila unità) per entrambi i generi e in ogni classe d’età tranne per i 35-49enni. Il tasso di disoccupazione totale è sceso al 7,2% (-0,2 punti), quello giovanile al 20,1% (-2,3 punti). Il tasso di inattività si mantiene stabile al 33,0%. Rispetto a marzo 2023, calano sia il numero di persone in cerca di lavoro (-7,4%, pari a -148mila unità) sia quello degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (-1,7%, pari a -213mila).
Sul fronte delle imprese Unioncamere e Anpal-Progetto Excelsior ci dicono che le imprese, nel 2024, chiederanno circa mezzo milioni di nuovi addetti ma una impresa su due avrà difficoltà a reperire manodopera con una “difficoltà in crescita” rispetto al biennio 2022-2023.
Dalla lettura di questi dati e incrociandoli con altri fattori di contesto, in primis l’”inverno demografico”, vengono da porsi due domande, la prima di tipo tecnico-concettuale e la seconda, consequenziale alla prima, relativa alle policy dedicate al mercato del lavoro.
Andando con ordine, la prima domanda è se, nel contesto attuale, l’Italia non si stia avviando verso un sentiero di piena occupazione. Da un punto di vista teorico la letteratura economica si è ampiamente occupata del tema ma, essendo l’economia non una scienza esatta, non si è arrivati ad una conclusione condivisa anche se ci sono tutti gli elementi per guidarci nell’interpretare l’attuale situazione nel nostro Paese.
In generale con il termine piena occupazione si fa riferimento alla piena occupazione della forza lavoro, ossia all’impiego totale dei lavoratori in cerca di un’occupazione ma per capire cosa si intenda per piena occupazione è necessario fare un ulteriore distinzione. La disoccupazione ha cause diverse, ed è necessario scomporla nelle sue componenti. In primo luogo distinguiamo la disoccupazione frizionale che è quel tipo di disoccupazione che deriva da alcune imperfezioni nel mercato del lavoro, come il fatto che l’incontro tra domanda (chi cerca lavoratori) e offerta (chi è disposto a lavorare) non è immediata, ma necessita di un lasso di tempo affinché chi cerca lavoro venga selezionato da chi cerca lavoratori. Alcune scuole di pensiero economico come quella “marginalista” associano il tasso di disoccupazione frizionale al tasso naturale di disoccupazione che da evidenze empiriche indicano nel 4% negli USA e di circa l’8% in Italia (la disoccupazione oggi è pari al 7,2% con tendenza decrescente come visto in precedenza).
Altro tipo di disoccupazione invece è quella strutturale, che appunto non dipende dalle frizioni del mercato, ma che è legata ai salari vigenti, in quanto, in questo caso, l’offerta di lavoro (dei lavoratori) sul mercato è strutturalmente superiore alla domanda (delle imprese), senza che essa possa essere riassorbita. Questo secondo tipo di disoccupazione viene discussa da Keynes nella Teoria generale. E che non è il caso italiano (e forse nemmeno europeo) in questo momento storico.
Quindi, con la piena occupazione non si intende la situazione per cui il tasso di disoccupazione è pari a 0, ma appunto che il suo livello sia pari a quello naturale, ossia che la disoccupazione sia solo di natura frizionale, cioè connaturata alla struttura economica del paese a cui ci si riferisce.
Ci si riferisce proprio a questo tipo di disoccupazione e l’economia italiana, a nostro avviso, allo stato attuale si trova in questa situazione.
Se il ragionamento ha una sua plausibilità, esso ci porta alla seconda domanda che noi poniamo, questa volta rivolta alle policy sul mercato del lavoro: nel contesto macroeconomico attuale è ancora razionale prevedere degli incentivi fiscali a pioggia o di qualsiasi altra natura per incentivare tutte le imprese ad assumere o si corre il rischio di finanziare, in un contesto di risorse pubbliche scarse, nuove assunzioni che altrimenti andrebbero egualmente effettuate dalle imprese, in particolare in contesti imprenditoriali molto vivaci come le realtà del Centro-Nord d’Italia o di particolari contesti locali del Sud? Non sarebbe preferibile individuare interventi su target di imprese/territori mirati con politiche più selettive?
In questo contesto perpetuare con politiche a pioggia incentrate prevalentemente sulla leva fiscale potrebbe comportare il verificarsi di due ulteriori effetti: il primo, che potremmo definire di “azzeramento” dell’effetto addizionale degli interventi. Ciò significherebbe che non si avrebbe un impatto aggiuntivo sull’occupazione in quanto, le imprese avrebbero comunque richiesto nuova manodopera a prescindere dagli incentivi previsti per poi o non trovarla numericamente (“effetto quantitativo”) o non trovare i profili richiesti (“effetto qualitativo”) in particolare quelli hi-tech e/o legati all’IA con evidente spreco di risorse pubbliche; il secondo, è che potremmo assistere a livello macroeconomico ad un “effetto spiazzamento” in termini di spesa pubblica, nel senso che, in un contesto di risorse scarse (vedi il preoccupante deficit e debito pubblico italiano), le risorse utilizzate per sostenere artificialmente nuova occupazione spiazzerebbero finanziariamente altri interventi più utili che non troverebbero le risorse pubbliche necessarie per la loro attuazione.
Forse è venuto il momento di perseguire politiche per il mercato del lavoro più selettive, mirate a determinati target (ad esempio micro imprese localizzate in aree interne per arrestare l’emorragia dello spopolamento in particolare al Sud o assunzione di lavoratori fragili) e spostare le risorse risparmiate per politiche dedicate alla formazione di profili professionali hi-tech o specifici per l’AI e per le startup innovative che sono le sfide dell’immediato futuro per la nostra economia.
Interventi che aiuterebbero l’aumento del Pil (previsione dello 0,7% nel 2024) e della produttività che in Italia tra il 2000 e il 2022 è stata di appena l’2,8% contro il 19% dell’Ue. Aspetti strettamente correlati tra loro.