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Foggia, i pomodori, i fatti e le verità non dette

Il post di Giuliano Cazzola, editorialista e blogger di Start Magazine

Nei giorni scorsi, in due incidenti avvenuti nel giro di poche ore sulle strade del Foggiano, hanno perso la vita 16 braccianti africani arrivati (chissà come?) nel nostro Paese per guadagnare qualche centinaio di euro nella stagione della raccolta del pomodoro, sottoponendosi ad un lavoro duro, mal retribuito ed a una vita di disagi in qualche baraccopoli di fortuna.

Gli eventi hanno suscitato l’interesse delle cronache, sia per la loro gravità (la pietà umana non è morta del tutto), sia perché fornisce argomenti di propaganda su di un tema che ha acquistato centralità nel dibattito politico. Riemerge la piaga del caporalato, oggi gestito da stranieri nei confronti di altri stranieri ancora più sventurati di loro; ritorna la denuncia di una condizione di lavoro che evoca lo schiavismo, a fronte della evidente sproporzione tra il lavoro svolto da questi “dannati della terra’’ , le retribuzioni percepite e gli orari a cui sono vincolati.

D’altro canto, gli agricoltori – quei pochi o quei tanti che non sono volgari sfruttatori – fanno notare che – all’interno della filiera agro-alimentare – il costo del prodotto è tanto basso da non consentire retribuzioni più elevate dei pochi euro erogati ai raccoglitori. Una confezione di pomodoro pelato o di passata arriva sugli scaffali dei supermercati, a disposizione dei consumatori, al prezzo di 1,50 euro: il vasetto di vetro ha un costo maggiore di quello della salsa che vi è contenuta. Lo stesso ragionamento potrebbe valere per altri prodotti agricoli (si pensi ai capperi che erano un vanto di Pantelleria) che possono essere acquistati solo se il loro prezzo è contenuto in un importo modesto. La nouvelle vague al governo ha trovato – in queste tragedie – un’opportunità per affermare le proprie tesi.

Abbiamo sentito le dichiarazioni in diretta del ministro di Polizia, Matteo Salvini, che dalla Festa della Lega in quel di Arcore (sotto le finestre dell’ex Cav?), ha commentato la strage di braccianti di colore. Oltre a promettere l’assunzione di nuovo personale addetto alla vigilanza e alla repressione dei fenomeni di caporalato e di sfruttamento del lavoro straniero, a chi gli obiettava le contraddizioni del mercato e le sfide della concorrenza ha risposto nel solito modo: no agli accordi commerciali con paesi in via di sviluppo che producono con costi per noi socialmente insostenibili, perché siamo invasi dal riso cambogiano e dai pomodori, arance e quant’altro provenienti da altri paesi che possono contare su costi molto più bassi dei nostri. Dal canto suo, Giggino Di Maio ha tuonato, al Senato, contro il dio mercato, responsabile di ogni possibile ingiustizia.

Alcuni aspetti, tuttavia, ci paiono trascurati. Salvini, per esempio, indica come alternativa alla ‘’invasione’’, l’impegno a far crescere le economie dei paesi da cui provengono i profughi, in modo da fornire risposte ai loro problemi in patria. Dimentica, però, che è proprio l’agricoltura il settore in cui sono maggiormente presenti le attitudini di sviluppo di quelle economia, tanto che nei periodici negoziati del WTO, sono i paesi emergenti a rivendicare una più ampia liberalizzazioni dei commerci agricoli, mentre sono gli Stati sviluppati a resistere per tutelare quelle minoranze che ancora operano nel settore (ne sono prova le tutele protezioniste che hanno caratterizzato la politica agricola europea).

Gli accordi commerciali, poi, non prevedono solo un ‘’dare’’, ma anche un ‘’avere’’: in cambio di riso o pomodori i paesi sviluppati esportano prodotti più sofisticati (le esportazioni italiane ammontano a 400 miliardi di euro all’anno con un saldo attivo di 100 miliardi). Tutto ciò premesso molte cose possono essere migliorate. Anziché scomodare – come ha proposto Salvini – droni ed elicotteri per individuare le sgangherate vetture dei caporali, non sarebbe più semplice predisporre, in loco, nei periodi della raccolta del pomodoro (è un’attività questa che, come nel caso di altre produzioni agricole, impone dei tempi stretti pena il deperimento del prodotto), delle linee di trasporto extraurbano su iniziativa degli enti locali?

Ciò che occorre evitare è il proposito di accettare la sfida della globalizzazione… all’indietro: segnando il passo sull’andatura delle aziende meno progredite, costrette a competere nella vana ricerca delle stesse condizioni dei concorrenti. In tali casi, nessuno sarà mai in grado di pagare un salario dignitoso ai braccianti stagionali, perché nessun consumatore sarà mai disposto a pagare più di 1,5 euro un barattolo di pressata.

Il protezionismo determina una lievitazione dei prezzi ed una riduzione dei consumi, ammesso e non concesso che si trovino delle donne italiane disposte a tornare – come faceva mia nonna – a lavorare in risaia per ore con le gambe nell’acqua e la schiena curva sotto il sole. La via d’uscita si chiama tecnologia. Come è avvenuto nell’industria da decenni, i lavori più disagiati vanno affidati alle macchine. Ve ne sono anche per la raccolta del pomodoro.

Basta consultare internet per farsene un’idea. Ecco che cosa abbiamo trovato. ‘’Giuseppe De Filippo, presidente di Coldiretti Foggia e importante produttore ortofrutticolo, fa un po’ di conti: «Con la raccolta meccanizzata le imprese agricole risparmiano 1500 euro a ettaro, i lavoratori a cassone costano molto di più. Le macchine non sono una novità per noi, le impieghiamo da vent’anni».

La realtà dunque è più complessa di quella che siamo soliti raccontare.

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