L’Italia è diventato il paese della cd. “Finanza Estrattiva” ad è un enorme problema per le PMI italiane.
Il fenomeno della “finanza estrattiva” è definibile come quel modello in cui il risparmio, gli investitori e persino le istituzioni finanziarie sfruttano le imprese italiane non per farle crescere, ma per estrarne valore, cioè denaro — in modo veloce, spesso speculativo — lasciando poco spazio agli investimenti e quindi alla creazione sostenibile di ricchezza, all’innovazione e al radicamento sul territorio.
Un paio di esempi intuitivi:
- Stellantis. L’A.D. Carlos Tavares ha riempito gli azionisti di profumati dividendi: dal 2021 alle sue dimissioni, ha distribuito ai soci circa 23 miliardi, di cui oltre 17 miliardi di dividendi e riacquisti azionari per 5,5 miliardi. Exor, primo socio della casa con il 14,9%, ha incassato nel giro di quattro anni una maxi-cedola di quasi 3 miliardi, senza contare i benefici dei buyback. Se buona parte di quei 23 miliardi fossero rimasti nelle casse aziendali invece che finire nelle tasche degli azionisti, la società avrebbe avuto risorse per fare investimenti in nuovi modelli, nuovi motori, nuove linee di produzione, etc.
- Autostrade : acquistate dai Benetton dallo Stato per poco più di 1 miliardo (il resto era stato messo dalle banche), si stima che in 20 anni abbia generato a favore dei Benetton oltre 18 miliardi tra dividendi e plusvalenze prima della vendita alla cordata di CDP.
Oltre a questi casi, la Finanza Estrattiva colpisce prevalentemente il tessuto delle PMI italiane e i principali attori di questo processo di scarnificazione industriale sono da un lato i cd “fondi di private equity” e le banche in qualità di operatori attivi, e dall’altro lato i fondi d’investimento italiani (e soprattutto fondi pensione) quali spettatori passivi.
In Italia se un imprenditore cerca soci per supportare la propria crescita ha 2 alternative: la borsa delle PMI, oppure i fondi di private equity.
- Se va in borsa, ha qualche possibilità di crescere in modo indipendente (uno dei migliori esempi è Luxottica e ce ne sono tanti altri, così come anche qualche insuccesso…).
- Se prende la strada del cd “private equity” e se il fondo acquisisce solo una minoranza (sempre più raro), la presenza di un socio così ingombrante crea nel tempo situazioni di nervosismo e difformità di vedute strategiche: il fondo entro 5 anni deve disinvestire e se l’azienda non va in borsa l’unica soluzione è la vendita di tutto. Se invece il fondo ha già la maggioranza, il destino è segnato: l’azienda viene rivenduta e quasi sempre l’acquirente è uno straniero che, troppo spesso, si appropria del know-how e poi chiude gli stabilimenti italiani.
Però quando si quota, in molti casi nel breve termine l’azienda perde valore e l’azione si deprezza, ma non perché l’azienda vada male, principalmente per cause esogene: liquidità del mercato, fondi d’investimento soggetti a riscatti che devono vedere le azioni in modo frettoloso, assenza di fondi pensione che sostengono il titolo nel lungo termine, etc. Quando succede, le PMI quotate diventano bersagli di acquisizione da parte di fondi o soci esteri i quali vanno dall’imprenditore sfiduciato e gliela comprano ad un valore inferiore al suo valore reale. E la comprano con pochi soldi loro e molti soldi concessi a prestito dalle banche, e così si portano via l’azienda, attraverso i cd “delisting”.
Poi, dopo qualche anno, la rivendono con capital gain stellari. Così il controllo e il valore vanno “altrove”.
Sono dinamiche speculative, in cui prevalgono operazioni con orizzonte breve: acquisizioni con leverage bancario, exit rapide, conflitti di interesse e poca attenzione all’impatto industriale, ambientale e sociale.
Si crea un circuito in cui il valore si sposta ma quasi sempre verso chi ha il potere finanziario e non necessariamente verso chi produce sul territorio: un’azienda che deve ripagare i debiti che le sono stati appioppati per esser stata acquisita, non può fare investimenti, assumere personale, espandersi, deve ripagare il debito, punto.
E a creare questa situazione partecipano anche le banche che, anziché finanziare le imprese che devono crescere, finanziano i fondi, in linea teorica più affidabili dei piccoli imprenditori. Ovviamente, ciò sottrae capacità di finanziamento all’industria.
La Finanza Estrattiva indebolisce il tessuto produttivo nazionale: riduce gli incentivi ad innovare, rende fragili le imprese, sposta il valore d’impresa fuori dal paese.
Ma non è un destino inevitabile. Con le giuste politiche, regolamentazioni e modelli imprenditoriali, si può costruire una finanza che non estrae ma coltiva valore: per le imprese, per i territori e per gli investitori che credono nel futuro. Le soluzioni sono – teoricamente – semplici:
- incentivare le quotazioni delle PMI, con supporto finanziario, normativo e fiscale adeguato;
- favorire il coinvolgimento del risparmio privato “paziente” e degli investitori istituzionali che guardano al lungo termine;
- migliorare la trasparenza, la governance, la visibilità delle società, in modo che siano apprezzate non solo per i bilanci attuali, ma per le prospettive, la sostenibilità e il valore industriale.
C’è molto da fare, in primis con l’educazione finanziaria non solo verso gli investitori istituzionali di lungo termine, ma anche verso gli imprenditori, che troppo spesso si affidano ai fondi di private equity “vendendo la primogenitura per un piatto di lenticchie”.