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Congiuntura

Fiat, Eni, Leonardo e non solo. Verità e frottole sul capitalismo in Italia. Post di Coltorti (ex Mediobanca)

L'ultimo "Botta e risposta" dell'editorialista Stefano Cingolani con il direttore di Start, Michele Arnese, ha innescato sui social un ampio dibattito. Pubblichiamo il post di Fulvio Coltorti, fino al 2015 direttore dell'Area studi di Mediobanca

La mia modesta opinione è che la preferenza per l’interventismo o il liberismo dipende dalla struttura del capitalismo di ciascun Paese. Popoli come i francesi e i tedeschi sentono un forte istinto nazionale e posseggono radici che affondano nel sociale. I francesi hanno fatto una Rivoluzione per affermare i principi della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità. I tedeschi hanno costruito un sistema di economia “sociale di mercato”. Gli imprenditori e i dirigenti d’azienda fanno parte del popolo e ne conservano il Dna.

L’Italia ha un duplice connotato: da un lato i grandi imprenditori privati hanno preferito le speculazioni al rafforzamento tecnologico delle proprie aziende (la Fiat, poi Fca, ne costituisce l’esempio lampante). Dall’altro, in latitanza dei “grandi”, i piccoli imprenditori hanno reagito, spesso sostenuti dalle società locali dove vale ancora l’emulazione e la ricerca del benessere collettivo.

Distretti industriali e, poi, il Quarto capitalismo delle medie imprese hanno proposto alternative al misero declino dei “grandi”. Ma le istituzioni si sono date da fare per menomare questo modello.

La lotta contro le banche popolari, tipiche banche di territorio, ne è l’esempio principale. Non condivido l’obiettivo di ingrandire le banche: è provato che più sono grandi e più sono inefficienti; ma soprattutto sono poco controllabili e finiscono sempre nell’azzardo morale, sicure che lo Stato non può fare a meno di salvarle quando stanno per fallire. E’ successo nella culla del liberismo (Usa) dove peraltro l’oligarchia finanziaria ha fatto sì che le magagne fossero sistemate con alcune fusioni (ulteriore spinta al TBTF) e con la facilità di collocamento delle azioni degli istituti ritenuti sanati presso gli investitori istituzionali.

Il mercato serve per orientare domanda e offerta dei beni e per misurare l’efficienza della produzione di merci e di servizi. Il richiamo al “mercato” come il migliore dei sistemi possibili è a mio avviso errato; infatti si tende ad equivocare la parola “mercato” con la concorrenza perfetta: un regime che forse valeva una volta per l’agricoltura, ma che non ha mai significato nulla per l’industria dove le concentrazioni del capitale hanno sempre portato agli oligopoli (buoni e cattivi…).

Il capitalismo post Reagan e Thatcher ha dato pessima prova di sé cibandosi degli istinti speculativi di breve periodo, favorendo disuguaglianze nella società e massacri dell’ambiente nel quale viviamo. Oggi è normale che un’economia proceda sottoutilizzando le proprie risorse (basti pensare all’Italia): si tratta del massimo dell’inefficienza, peraltro ben prevista negli anni Trenta da Keynes.

Il profitto delle imprese misura l’efficienza della gestione, ma deve essere visto come mezzo per costituire l’autofinanziamento con il quale realizzare gli investimenti che applicano le innovazioni, solo strumento di progresso.

La creazione di ricchezza per gli azionisti è un principio orribile perché trascura tutti gli altri stakeholders: più deboli perché non rappresentati nei CdA, ma ugualmente importanti.

Molti ora dichiarano di voler perseguire questo scopo più ampio e “sociale”, ma nessuno mi pare abbia fatto nulla in tal senso, salvo diffondere nei media dichiarazioni di intenzioni.

Lo Stato italiano, a mio parere, deve tenersi strette le imprese che ora controlla perché la storia recente e meno recente dimostra che un loro trasferimento ai privati finirebbe per essere deleterio.

Il problema da risolvere è il conflitto di interessi tra politici e imprese produttive e, ovviamente, la governance migliore per queste “nuove” partecipazioni statali: evitare di ripetere gli errori che distrussero Iri, Efim, Egam … Questo dovrebbe essere il fuoco della discussione.

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