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Euro Sussistenza Desertificazione Economica

Quando l’euro diventa un problema e a dirlo sono dei tedeschi

Recentemente una ricerca di un prestigioso istituto tedesco ha messo in evidenza le difficoltà di Italia e Francia a convivere con l'euro, mentre la Germania ne avrebbe beneficiato. L'approfondimento di Luciano Priori Friggi

Recentemente una ricerca di un prestigioso istituto tedesco ha messo in evidenza le difficoltà di Italia e Francia a convivere con la moneta unica, mentre la Germania ne avrebbe beneficiato. Un argomento da “sovranisti”, che gli avversari liquidano solitamente con un’alzata di spalle, ma che questa volta è diventato un “caso”. Ora che il clamore sulle conclusioni cui è giunto si sono attenuate, proviamo a discuterne con calma.

Uno studio redatto in Germania non può, secondo la vulgata, che distinguersi per precisione e accuratezza. Quello che sto per presentare non è da meno, con in più, tuttavia, una caratteristica inusuale a quelle latitudini, puntare a fare scandalo.

L’AREA CULTURALE DI RIFERIMENTO

Vediamo subito chi sono gli autori: si tratta di Matthias Kullas e Alessandro Gasparotti, entrambi membri del team del “Cep – Centro per le politiche europee di Friburgo”, e lo studio che firmano già anticipa nel titolo un contenuto bollente, “20 anni di euro: vincitori e perdenti”.

Sgombriamo subito il campo da illazioni e dietrologie varie su chi c’è dietro al Cep. A presiedere l’istituto è un economista accademico di orientamento liberale, il prof. Lüder Gerken, che ritroviamo anche alla testa del “Friedrich August von Hayek Stiftung”, una fondazione che si propone, come si legge nel suo sito, di puntare “al consolidamento e alla promozione delle basi di un ordine economico e sociale liberale a livello nazionale e internazionale nello spirito di Friedrich August von Hayek”. Com’è noto Hayek è stato l’avversario di J. M. Keynes —rispolverato e osannato dai nostri “sovranisti”—, in nome della libertà e del mercato, di contro allo “statalismo”, o supposto tale, dell’economista inglese.

Ho voluto soffermarmi su questi aspetti perché si è letto di tutto, e per ricordare che siamo di fronte a liberali veri, gli unici riconducibili a Hayek e Milton Friedman (i due si ritroveranno nella “Mont Pelerin Society”, il think tank più importante a livello internazionale del liberalismo), e che in Germania rappresentano la “casa dell’ortodossia ordo-liberale” (S. McBride, M. M. Evans, The Austerity State).

Un’ultima notazione, la fondazione presieduta da Gerken assegna un Premio di giornalismo e un Premio internazionale biennali. Quest’ultimo, si legge in un comunicato, nel corrente anno “sarà conferito a Margrethe Vestager, commissario europeo per la concorrenza dal 2014 […] per il suo impegno per una concorrenza leale in Europa”. Per la cronaca Margrethe Vestager è colei che recentemente ha bocciato l’acquisizione di Alstom da parte di Siemens, facendo infuriare Parigi.

Una domanda sorge a questo punto spontanea. Abbiamo a che fare con dei pro-euro o no-euro? Diciamo subito che dallo studio nulla si evince in un senso o nell’altro. Anzi, visto il vespaio creato, in una successiva nota, il Cep ha tenuto a precisare che “I risultati dello studio non mostrano che sarebbe meglio per uno stato che ha adottato l’euro uscire dalla moneta unica”. E aggiungono: “Questo è stato sottolineato più volte nello studio. L’uscita dall’euro comporterebbe rischi ingestibili e non ne scaturirebbe quindi un miglioramento della prosperità per nessuno dei paesi rispetto allo status quo. Le riforme sono quindi l’unica alternativa”.

A leggere questa dichiarazione non ci sarebbero in apparenza differenze a livello politico con il liberalismo europeo attuale (Guy Verhofstadt, Alde, +Europa, Macron, e così via), cioè a dire con l’ortodossia europea, nota per l’allineamento acritico pro-euro (una sorta di “ordo-eurismo”, a voler coniare un neologismo), ma poiché nel paper si parla di “vincitori e vinti”, si è di fronte a una divaricazione di visione, non eliminabile con comunicati politically correct come quello del Cep. È per questo che preferisco chiamare il loro contributo come tipico dei “liberali della cattedra” (di area “ordoliberale”).

IL METODO SEGUITO

E veniamo alle basi scientifiche su cui poggia la ricerca. Basi subito messe in discussione, a prima vista, dal tipo di tecnica adottata, il “se”, cui a volte si ricorre in campo storico (se Napoleone non avesse perso a Waterloo, ecc.), come in campo economico. Come funziona? Ipotizziamo —rimanendo in ambito napoleonico— un diverso sviluppo degli eventi, a partire dal 1815, da un parte la Restaurazione, il reale, dall’altro un racconto del tutto diverso, ricavato dal “programma” dell’imperatore francese, il simulato. Ma facciamo un passo ulteriore. Supponiamo ora che in qualche parte del mondo ci sia stata nello stesso periodo una sequenza di eventi del tutto simile a quella dei francesi, e che non abbia subito interruzioni drammatiche del tipo di Waterloo, ebbene, avremmo aggiunto un ulteriore elemento di “controllo” a sostegno dell’attendibilità della ricostruzione alternativa in Francia.

A livello storico è molto difficile trovare analogie del genere, può esserlo di meno a livello economico e con una affidabilità maggiore, perché, usciti dall’ambito descrittivo, abbiamo a che fare con dei numeri, su cui si può discutere all’infinito, ma che comunque restringono drasticamente l’ampiezza delle possibilità della simulazione.

Nello specifico, la domanda che si pongono gli autori è: “come si sarebbe sviluppato il Pil pro-capite in determinati paesi della zona euro se [corsivo mio] non si fossero uniti all’eurozona?” Una volta trovato un modo credibile per calcolarlo, si passa al confronto “con la tendenza reale [cioè i dati statistici effettivi] del Pil pro-capite, da cui si ricava l’impatto che l’adesione all’euro ha avuto sulla prosperità”.

Una sfida di lavoro affascinante, non c’è che dire. Il sistema di controllo adottato, chiamato in modo accattivante “synthetic control method”, sulla base di criteri prestabiliti, ha fatto sì che per l’Italia i paesi selezionati siano stati il Regno Unito, con un “peso” statistico del 63.2%, l’Australia con il 31.0%, il residuo distribuito tra Giappone e Israele.

I RISULTATI

La studio prende in considerazione un periodo ragionevolmente lungo, 1980-2017, diviso in due sottoperiodi, 1980-1996 e 1999-2017. Il primo sottoperiodo è servito per selezionare i paesi da usare come “control” per il ventennio dell’euro. Per il nostro paese, con la simulazione (secondo sottoperiodo), otteniamo un tasso di crescita (virtuale) del Pil pro-capite uguale a quello dell’aggregato di riferimento (sostanzialmente Regno Unito+Australia).

Lo scandalo, visti i risultati ottenuti, è stato inevitabile. Per usare le parole del Cep: “in nessun altro paese di quelli esaminati l’euro ha portato a perdite così elevate di prosperità come in Italia. Le perdite sostenute dall’introduzione dell’euro ammontano a 4,325 miliardi di euro complessivi o 73,605 euro procapite” (si noti la precisione teutonica, il cui immaginario esclude evidentemente l’arrotondamento anche in caso di simulazioni di questo tipo).

Segue la spiegazione, del tutto neutrale: “Ciò [le perdite] è dovuto al fatto che il PIL pro-capite italiano è ristagnato dall’introduzione dell’euro. L’Italia non ha ancora trovato un modo per diventare competitiva all’interno dell’eurozona”; si passa poi ad una spiegazione causale, un’aggiunta perché non emerge dallo studio, che si rivela una specie di bomba nucleare, sganciata sulle placide lande degli “ordoeuristi” (soprattutto): “Nei decenni precedenti all’introduzione dell’euro, l’Italia ha regolarmente svalutato la sua moneta a questo scopo [restare competitiva]. Dopo l’introduzione dell’euro, ciò non è stato più possibile”.

A me pare che la sequenza del ragionamento non ammetta dubbi: l’Italia dentro l’euro non è competitiva, mentre prima lo era perché riusciva a compensare con le svalutazioni le differenze di ritmo e di struttura con alcuni paesi (soprattutto la Germania).

Infine gli autori passano ai consigli: l’Italia dentro l’euro non è competitiva perché, senza una moneta nazionale “erano necessarie riforme strutturali. La Spagna mostra come le riforme strutturali possono invertire la tendenza negativa di perdite sempre crescenti in termini di prosperità”.

Il riepilogo generale della simulazione mostra che una situazione appena migliore dell’Italia è toccata alla Francia, mentre tra i beneficiati al primo posto, tra gli otto paesi presi in considerazione, si trova la Germania con un guadagno di 1,893 miliardi di euro complessivi e 23,116 euro pro-capite, seguita dall’Olanda.

LE CRITICHE

Lo studio —a differenza di un altro analogo sempre sull’euro di qualche anno fa (2009, con alcune differenza nei risultati, autori Laura Puzello e Pedro Gomis-Porqueras, dal titolo eloquente, Winners and Losers from the euro), citato a propria difesa poi dal Cep come esempio di metodologia consolidata — ha fatto molto rumore. Ne ha parlato la stampa italiana, francese, austriaca e tedesca, con qualche passaggio anche nelle Tv.

I più pronti a stigmatizzarlo come inconsistente, quindi di nessun valore, sono stati ovviamente gli “ordo-euristi”. Il primo articolo critico è uscito a firma di Alessandro Martinello, al momento della pubblicazione ancora in forza dell’Università di Lund (che lascerà subito dopo per un incarico in un’istituzione bancaria), su Strade: No, non siamo diventati più poveri per colpa dell’euro. Sul metodo del Cep: “fa parte dell’arsenale metodologico di un micro-economista, chiamato Synthetic Control (SC), ed è tradizionalmente usato per l’analisi comparata di eventi singoli in piccola scala”, perciò non adatto alla macro-economia. L’articolo tradisce la sua natura soprattutto polemica in quanto, per far tornare i conti, non cita affatto il già ricordato studio di Puzello e Gomis-Porqueras, dotato di tutti gli attributi per superare l’esame di serietà accademica a livello macro.

Michele Boldrin, economista giramondo in forza alla Washington University in St. Louis, in un articolo su Linkiesta, L’Euro ha fatto male all’Italia? Ecco perché è una bufala colossale, è più sbrigativo, e usa il suo solito linguaggio colorito: “L’ennesima bufala cattura da giorni la fantasia degli italiani … [e grazie a giornalisti poco seri, ecc.] questa ridicola fandonia è oramai parte della chiacchiera nazionale e sarà impossibile sradicarla”. Per lui non va bene niente, nemmeno la scelta dei paesi del “gruppo di controllo”, Londra perché è diventata un “hub finanziario”, l’Australia per i legami come fornitore di materie prime alla Cina, e così via. Non cita lo studio di Puzello e Gomis-Porqueras, e perde tempo invece a descrivere, come Martinello, un caso di applicazione micro (le sigarette).

In un successivo intervento (un video), dopo che lo studio analogo era stato fatto conoscere da alcuni giornalisti scrupolosi, ne parlerà; lui stesso farà delle simulazioni, il giudizio generale sullo studio del Cep diventerà più sfumato, mentre sul banco degli imputati resteranno soprattutto i media per avergli concesso uno spazio eccessivo. Ma ad un tentativo di ripresa della discussione sul tema, da parte di Salvatore Cannavò su Il Fatto, Boldrin si scatena di nuovo: “Continua a manipolare i fatti. Quello “schifo” (che studio è un’altra cosa) è stato prodotto da una oscura “fondazione” della destra sovranista tedesca che vuole cacciare gli straccioni italiani dall’euro. La parola “ordoliberismo” non vuol dire nulla, eviti di usarla”.

Un articolo molto critico, simile per impostazione ai due contributi precedenti, viene dalla Francia a firma di Luc de Barochez su LePoint, dal titolo Lo studio tedesco bidone sui perdenti dell’euro. A sostegno della tesi riporta alcune considerazioni per alcuni aspetti interessanti (anche dal versante tedesco): ”Marcel Fratzscher, a capo del “Deutsches Institut für Wirstschaftsforschung (DIW)” di Berlino, ha dichiarato che i risultati dello studio non sono “convincenti” perché il metodo è “inadatto”. Secondo lui, la fiducia e la stabilità che sono state generate dall’euro hanno portato guadagni nei paesi dell’Europa meridionale che non sono presi in considerazione dal CEP. “Non è l’euro a essere responsabile della crisi del debito, ma gli errori dei governi”, ha aggiunto Marcel Fratzscher al quotidiano Tagesspiegel”.

Magari, sarebbe stato bene ricordare anche che Fratzscher in più occasioni non è stato tenero con la Germania, definita “gigante dai piedi di argilla” che ha “beneficiato delle maxi esportazioni grazie all’euro, con un surplus commerciale di 248 mld di euro, superiore al 6% concesso dall’Ue, deflattivo per gli altri paesi”.

Tralascio di riportare i tanti articoli entusiasti dello studio, perché poco utili ai fini di un esame critico del lavoro.

UNO STUDIO SFATA-TABÙ

Da parte mia non posso accettare che si rifiuti lo studio perché avrebbe portato “oggettivamente” — quanti misfatti si sono consumati all’ombra di tale accusa— acqua al mulino dei sovranisti, mentre lo ritengo utile per diverse ragioni. Utilizzo a tal proposito, perché la situazione è la stessa, ciò che il prof. Fausto Panunzi ha scritto, su LaVoce.info, a proposito dei libri del sen. Alberto Bagnai: “Si può concordare con le ricette di Bagnai o esserne fieri avversari, si può ritenere a volte eccessiva la sua vis polemica, ma va riconosciuto che i suoi libri hanno senza dubbio il merito di avere stimolato e arricchito il dibattito sull’euro e sul futuro dell’Europa”.

Ai tanti economisti che si sono mostrati inorriditi per il metodo, vorrei ricordare che gli studi “controfattuali” in campo economico hanno ormai una consolidata tradizione, a maggior ragione dopo il Nobel al prof. Robert W. Fogel, un allievo —non per caso— di Milton Friedman. Gli specialisti ricorderanno cosa fu premiata: una ricerca ai limiti della provocazione. cosa sarebbe successo da un punto di vista economico se la schiavitù non fosse stata abolita nel Sud degli Stati Uniti. In apparenza un gioco inutile, in realtà un mezzo per sollevare discussioni tutt’altro che banali, come poi si verificò, su aspetti rimossi nel rispetto del politically correct.

Se devo fare un appunto, mi pare che la seguente affermazione, contenuta nello studio, meriti qualche precisazione: “l’Italia ha regolarmente svalutato la sua moneta a questo scopo [restare competitiva]”. Qui si dà per scontato un comportamento attivo pro-svalutazione da parte dell’Italia che invece è tutto da dimostrare. Il Sistema Monetario Europeo (Sme) parte nel 1979, funziona per bande di oscillazione (±2,25%, del ±6% per Italia, Gran Bretagna, Spagna e Portogallo), agli inizi degli anni Ottanta avviene il “divorzio” Bankitalia-Tesoro, insomma, queste svalutazioni “regolari”, come sarebbero avvenute? Mi pare ci si trovi di fronte a una di quella situazioni in cui tutti affermano una certa cosa, che solo per questo diventa un verità indiscutibile.

Prendiamo l’episodio più eclatante dall’inizio dello Sme, la crisi monetaria del 1992, e cosa troviamo? Che la Banca d’Italia si svenò per mantenere la lira all’interno del range di oscillazione del “serpente monetario”, senza riuscirvi, per la virulenza dell’attacco speculativo, il cui centro organizzatore furono la city londinese e Soros (il quale di recente lo ha ammesso, aggiungendo di non avere rimorsi, avendo fatto solo quel che, a suo dire, era giusto fare).

Ebbene, cosa ci dice quell’episodio in realtà? Che la lira (ma anche il franco), cioè l’economia italiana, non era in grado di tenere il passo con il marco tedesco (come già venti anni prima era successo col dollaro) e che solo un aggiustamento del cambio (che avrebbe riguardato in ogni caso il rapporto con tutte le valute, e non è detto che si trattasse sempre di svalutazione) poteva ristabilire l’equilibrio.

È per questo che i “liberali della cattedra” (ricordo qui il più famoso di tutti, il già menzionato Friedman) sono stati sempre contro i cambi fissi, e quindi anche contro l’euro, per via della necessità di salvaguardare l’equilibrio tra economie, indispensabile per raggiungere una equilibrata bilancia commerciale (nel caso dell’euro, in particolare tra stati facenti parte della stessa unione monetaria: si vedano le esportazioni italiane 2017 verso la Germania, pari a $58.5 miliardi, e le importazioni, pari a $72.2 miliardi, per non parlare della situazione francese, ben peggiore).

Con i cambi fissi —è la teoria ad affermarlo sulla base dell’esperienza storica— l’equilibrio tra paesi fatica a ristabilirsi, con ricadute a cascata sull’intera economia dei singoli attori (bilancia dei pagamenti, investimenti, occupazione, Pil, deficit e debito pubblico). Sono dell’opinione che questa sia anche la convinzione profonda dei “liberali della cattedra” del Cep, teorica innanzitutto, e che in cuor loro in concreto vedrebbero di buon occhio l’assunzione per l’Italia di uno status simile a quello della Danimarca (che ha mantenuto la Corona, pur facendo parte dell’Ue). Gerken lo ha dichiarato senza mezzi termini, l’Italia dentro l’euro rischia l’osso del collo: “Dobbiamo ammettere che per l’Italia sarebbe stato meglio non entrare nell’euro”. Solo che la trappola per lui è troppo perfetta per poterla ignorare: “Ma adesso [l’Italia] non più uscirne: tornando alla lira, questa si svaluterebbe velocemente, il suo valore sarebbe dimezzato, il debito pubblico italiano si raddoppierebbe. E parliamo della terza economia dell’Eurozona: una rovina anche per la banca centrale europea” (da Lettera43). E allora, che si fa? L’unica strada percorribile, per il Cep, sono le “riforme”.

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