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America

Tutti gli effetti negativi dei dazi di Trump per gli Usa. Report Confindustria

Che cosa sostiene un report dell’ufficio studi di Confindustria che prospetta un effetto negativo sull’attività produttiva americana dopo l’introduzione di dazi da parte dell’amministrazione Trump Le barriere commerciali appaiono come un gioco a somma zero: quanto perdono i paesi esportatori, tanto vincono gli Stati Uniti. Le minori importazioni, infatti, possono essere sostituite da produzione domestiche, specie…

Le barriere commerciali appaiono come un gioco a somma zero: quanto perdono i paesi esportatori, tanto vincono gli Stati Uniti. Le minori importazioni, infatti, possono essere sostituite da produzione domestiche, specie se accompagnate da un aumento di capacità produttiva via maggiori investimenti diretti esteri in entrata. E con uno spostamento all’interno dei confini USA anche di parte delle filiere di produzione a monte del comparto acciaio e alluminio. Tuttavia, esiste un effetto negativo sull’attività produttiva di chi impone i dazi, attraverso un aumento dei costi di produzione. Un effetto che può facilmente controbilanciare quello di sostituzione. Innanzitutto, perché le importazioni di acciaio e alluminio diventano più care e, in molti casi, non possono essere sostituite a costo zero con prodotti domestici, se questi ultimi non assicurano gli stessi standard qualitativi ovvero, a parità di qualità, hanno prezzi più elevati. È il caso, per esempio, dei lingotti e profilati in acciaio inox (nei quali l’Italia detiene una posizione di leadership nel mercato statunitense). Le imprese americane, infatti, sono preoccupate di subire rincari su prodotti importati ritenuti indispensabili e non disponibili nel mercato domestico, tanto che l’amministrazione USA ha definito una specifica procedura per la richiesta di esenzione. In secondo luogo, perché anche le imprese domestiche di acciaio e alluminio sono attese ritoccare i propri listini, dato l’aumento dei prezzi dei loro concorrenti esteri, per recuperare i margini di profitto ridotti, appunto, dalla concorrenza internazionale.

È quanto è accaduto nel caso dei dazi sull’acciaio imposti dall’amministrazione Bush nel 2002: a una tariffa del 30% sull’import è corrisposto un incremento quasi equivalente, del 25%, delle quotazioni domestiche. Per questo motivo si attendono rincari non lontani dal 20% sul prezzo dell’acciaio e del 10% su quello dell’alluminio (18% nella media ponderata dei due comparti). Di conseguenza, l’aumento delle quotazioni di questi metalli verrà trasferito, in gran parte, sulle imprese acquirenti, nei settori a valle lungo le filiere produttive. Queste imprese possono reagire all’incremento dei costi in vari modi: trasferendo a loro volta i maggiori prezzi ai propri clienti, tagliando i margini e diminuendo la produzione. Maggiori prezzi e minori margini, a loro volta, abbassano la competitività estera delle imprese stesse, penalizzando le esportazioni. L’aumento dei prezzi si trasferisce, infine, sull’inflazione, riducendo il potere d’acquisto delle famiglie e rallentando così i consumi. È più forte l’impulso positivo di domanda o quello negativo di costo? Secondo studi empirici, l’effetto principale delle barriere protezionistiche è il secondo: un calo della produzione e un aumento dell’inflazione10. Non solo: la diminuzione dell’export via minore competitività internazionale controbilancia in gran parte la riduzione dell’import, cosicché l’effetto positivo sul saldo commerciale è piccolo; ed è dovuto, in ultima analisi, alla discesa di produzione e domanda interne. Questa risposta può essere ulteriormente qualificata, analizzando le interdipendenze tra i settori USA.

In base all’analisi precedente, infatti, l’effetto costo è tanto maggiore, e l’effetto domanda tanto minore, quanto più il settore su cui si applicano i dazi si posiziona a monte delle filiere produttive. È questo il caso del comparto dei metalli di base, come l’acciaio e l’alluminio, che è soprattutto fornitore di input intermedi per le altre attività manifatturiere e per le costruzioni. Secondo stime CSC, infatti, i metalli di base incorporati in altri manufatti USA, direttamente e indirettamente (cioè attraverso più di un passaggio produttivo), pesano per il 5,0% del valore del resto della produzione manifatturiera. Un livello cinque volte superiore a quello dei beni intermedi manifatturieri (sempre in percentuale della produzione) che sono utilizzati, direttamente e indirettamente, dal settore dei metalli di base (Figura 6). In particolare, alcuni comparti manifatturieri sono fortemente dipendenti dai metalli di base e quindi maggiormente penalizzati da un aumento dei loro prezzi: si tratta, evidentemente, della lavorazione di prodotti in metallo (con un peso del 22,4%), ma anche di apparecchi elettrici (17,1%), macchinari e impianti (11,9%), autoveicoli (8,9%) e altri mezzi di trasporto (7,1%). Tra i fornitori del settore metalli di base ci sono, invece, le attività estrattive e le utility (energia, gas, acqua e, soprattutto, gestione dei rifiuti). Infine, il settore terziario è poco connesso con i metalli di base, con la parziale eccezione della fornitura di servizi di trasporto e di commercio all’ingrosso. Per questi motivi, l’aumento della produzione USA di metalli sarà, probabilmente, più che compensato da una perdita negli altri comparti manifatturieri, con un lieve rallentamento della crescita complessiva; inoltre, dato che i metalli di base sono un’attività ad alta intensità di capitale, il numero di nuovi posti di lavoro nel settore sarà estremamente limitato in confronto a quelli persi nel resto del manifatturiero. È quanto è successo, per esempio, nel caso dei dazi imposti dall’amministrazione Bush nel 2002.

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