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Ecco perché i cervelli non rientrano

Dal 2011 al 2020, i rimpatri di laureati italiani sono aumentati da circa 4.100 a 13.700 l’anno, ma gli espatri sono aumentati di più: da circa 7.700 a 31.300. Gli incentivi per il rientro dei cervelli sono insufficienti ma non è solo questo il problema. L'intervento di Giuseppe Capuano, economista ed esperto Pnrr

 

Secondo i dati di Banca D’Italia (Relazione Governatore 2022) circa un milione di giovani avrebbero lasciato il nostro Paese negli ultimi 10 anni con un costo economico dell’1% del Pil all’anno. Da altre indagini risulta che circa 600mila di essi rientrerebbe in Italia se ci fossero le condizioni socio-economiche. Due dati che rappresentano il punto di partenza della nostra riflessione.

Al fine di agevolare il “rientro dei cervelli” e ridurre il gap tra “uscite e entrate”, la principale misura adottata dai governi italiani negli ultimi anni è stata quella delle agevolazioni fiscali. Queste potrebbero aver influenzato i rientri dei lavoratori “impatriati”, soprattutto a seguito delle condizioni più favorevoli introdotte dal “decreto Crescita” nel 2019 e successive modifiche, ma sono risultate oggettivamente insufficienti.

Per quanto riguarda “docenti e ricercatori”, invece, non si possono trarre conclusioni chiare sull’efficacia delle agevolazioni. Tuttavia, essi sembrano lasciare l’Italia anche per cause legate al nostro sistema universitario e alle sue ridotte opportunità, e non soltanto alla remunerazione o al regime fiscale.

In sintesi, la normativa a favore di queste due categorie prevede che coloro che possiedono una laurea universitaria (o un titolo di studio equiparato) e trasferisce la propria residenza in Italia dopo almeno due anni di lavoro/ricerca all’estero beneficia di sgravi fiscali. Nel regime attuale, non vi sono requisiti di età.

Gli sgravi sono diversi tra docenti/ricercatori da un lato e dipendenti/professionisti (“lavoratori impatriati”) dall’altro:

  • per i lavoratori impatriati, il reddito imponibile è abbattuto del 70% e del 90% se la residenza viene trasferita in una regione del Sud. La durata dell’agevolazione è di 5 anni, con possibilità di estenderla sotto alcune condizioni (es. figli minorenni e acquisto casa);
  • per i docenti/ricercatori, invece, l’esenzione è al 90% e la durata è di 6 anni (anche in questo caso con possibilità di estensione rispettando alcune condizioni).

Una terza agevolazione (“neo-residenti”) è utilizzabile anche dai sopracitati docenti/ricercatori e dipendenti/professionisti, ma è mirata a soggetti che hanno passato un periodo più prolungato all’estero (e che non hanno necessariamente una laurea). Questa agevolazione, infatti, richiede che il beneficiario abbia risieduto all’estero per almeno nove anni (nel corso dei dieci che precedono l’agevolazione), anziché due. L’agevolazione, che ha durata per quindici anni, consiste nel pagare una tassa piatta annuale di 100.000 euro in sostituzione alle imposte sul reddito prodotto all’estero. Chi usufruisce dell’opzione pagherà comunque le tasse (senza sgravi) sui redditi prodotti in Italia. L’agevolazione può essere estesa anche ai familiari, con un’imposta sostitutiva di 25.000 euro.

Infine, va menzionata anche la tassazione sostitutiva del 7% per chi percepisce una pensione estera e trasferisce la residenza in un comune delle regioni meridionali con popolazione non superiore a 20.000 abitanti.

La misura negli anni ha subito diverse modifiche e ampliamenti. L’ultima, in ordine di tempo, è stata introdotta nel 2022 e ha riguardato due aspetti: i diritti dei cittadini britannici in possesso dei requisiti richiesti, e se il regime agevolato sia valido anche in caso di smart working.

Per quel che riguarda la posizione dei cittadini del Regno Unito, questa è stata chiarita dall’Agenzia delle Entrate attraverso risposta all’interpello n. 172 del 6 aprile 2022, proprio riguardante i diritti dei cittadini britannici a seguito della Brexit. È stato specificato che, se in possesso dei requisiti, si ha il diritto di richiedere un prolungamento della durata dei benefici fiscali.

Sempre l’Agenzia delle Entrate ha dichiarato che si può accedere ai vantaggi disponibili per i lavoratori impatriati anche in caso di remote working per un’agenzia estera. Questa precisazione è stata data in risposta all’interpello 223 del 27 aprile 2022. Questo perché non è necessario che il lavoro venga svolto per una realtà presente sul territorio italiano, ma è fondamentale trasferire la propria residenza fiscale nel Paese e vengano rispettate le altre richieste.

Inoltre i cittadini italiani non iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (Aire) possono comunque accedere ai benefici fiscali, a patto che siano rientrati in Italia a partire dal periodo d’imposta successivo al 31 dicembre 2019 e la residenza sia in uno Stato ai sensi di una Convenzione contro le doppie imposizioni sui redditi.

Si tratta di convenzioni stabilite con Paesi esteri, comunitari e non, per evitare le doppie imposizioni sul reddito e sul patrimonio, e che stabiliscono come deve essere ripartito il potere impositivo fra i due Stati contraenti, regolamentando il trattamento fiscale delle singole categorie di reddito.

Grazie a queste migliorie della norma, dal 2011 al 2020, i rimpatri di laureati italiani sono aumentati da circa 4.100 a 13.700 l’anno, ma gli espatri sono aumentati di più: da circa 7.700 a 31.300.

La tendenza è più forte per i laureati con meno di 40 anni. Nello stesso periodo, questi rimpatri sono aumentati da circa 2.300 a 8.500, ma i corrispondenti espatri sono saliti da circa 5.000 a 25.000. In quasi dieci anni, il saldo migratorio di laureati italiani (ossia la differenza tra rimpatri ed espatri) è peggiorato del 388% e del 489% per i laureati più giovani.

Fra l’altro, tra il 2002 e il 2016 circa 11.000 ricercatori hanno lasciato l’Italia, il numero più elevato tra i paesi dell’Unione Europea. In valore assoluto, anche il numero di rimpatri dal Regno Unito è aumentato, ma meno rispetto agli espatri (il saldo migratorio è peggiorato da -384 unità nel 2011 a più di -4.000 nel 2020).

Dal 2017, il numero di docenti e ricercatori che beneficiano degli sgravi introdotti per questo gruppo (ricavabile dalle dichiarazioni fiscali) è rimasto stabile, calando però nell’anno di imposta 2020.

Al contrario, il numero di lavoratori che beneficiano di sgravi per impatriati è più che raddoppiato tra il 2018 e il 2020 (da 6.966 a 15.080), probabilmente a seguito delle migliori condizioni introdotte dal “decreto Crescita” del 2019: in precedenza, infatti, la riduzione del reddito imponibile era al 50% (e non al 70%) e non vi era possibilità di estendere la durata.

In conclusione, anche se da un punto di vista strettamente metodologico non sia agevole isolare da altri fattori l’impatto degli sgravi fiscali sui rimpatri, il forte afflusso registrato dopo l’approvazione del “decreto Crescita” suggerisce che queste agevolazioni abbiano avuto un interessante effetto anche se non sufficiente a invertire la tendenza.

Per quanto riguarda docenti e ricercatori, invece, non è possibile trarre una conclusione, in assenza di modifiche sostanziali al regime (l’esenzione è stabile al 90% sin dalla sua introduzione nel 2010) e di dati sui beneficiari prima del 2017. Tuttavia, i sondaggi sul parere dei ricercatori italiani che si trasferiscono all’estero riportati in un lavoro di Nascia, Pianta e Zacharewicz del 2021 indicano che la remunerazione e il regime fiscale sono solo due dei tanti fattori che inducono all’espatrio, tra cui:

  • instabilità dei posti di lavoro rispetto all’estero, con minori possibilità di contratti indeterminati nelle varie posizioni di carriera;
  • sistema universitario nazionale considerato come poco trasparente e non basato sul merito;
  • scarsa fiducia sulle prospettive di carriera in termini di opportunità e di velocità per raggiungerle.

A tutto ciò si potrebbe aggiungere come particolare criticità anche la scarsa informazione che i soggetti interessati hanno sulle misure di agevolazione messe loro a disposizione. A tal proposito, diffuse campagne di informazione sia a livello nazionale che a livello locale (a cura ad esempio delle Camere di commercio, associazioni datoriali, Università, etc.) potrebbero favorire il loro utilizzo e accelerare i percorsi di rientro nel nostro Paese dei ricercatori e più in generale dei nostri lavoratori spesso molto qualificati.

Le problematiche esposte in precedenza potrebbero essere meglio affrontate solo attraverso una riforma del sistema universitario nazionale e con il corretto utilizzo dei fondi messi a disposizione dal PNRR. Su quest’ultimo aspetto, il PNRR alla “Missione 4” si concentra direttamente sul mondo dell’istruzione e delle Università, per la quale saranno stanziati 30,88 miliardi. In particolare la Componente 2 – dalla ricerca all’impresa – mette a disposizione ben 11,44 miliardi di euro, ed è organizzata come segue:

  • Rafforzamento della ricerca e diffusione di modelli innovativi per la ricerca di base e applicata condotta in sinergia tra università e imprese;
  • Sostegno ai processi di innovazione e trasferimento tecnologico;
  • Potenziamento delle condizioni di supporto alla ricerca e all’innovazione.
  • Da un punto di vista operativo, le linee guida definite dal MUR il 7 ottobre 2021, contengono le informazioni chiave per i potenziali partecipanti.

Gli interventi finanziari in questa prima fase prevedono di utilizzare circa 6 MLD in 5 anni a cui si accederà tramite appositi bandi. I soggetti interessati sono Università, Enti pubblici o privati impegnati in progetti di ricerca e organizzati in consorzi sul modello Hub & Spoke.

Inoltre, 600 milioni di euro sono stati stanziati specificamente dal PNRR per il “rientro dei cervelli”.  Altri 500 milioni saranno stanziati in due anni nell’ambito del diritto allo studio, dedicati quindi alle borse di studio. I 600 milioni andranno a sostenere 900 giovani ricercatori che abbiano vinto progetti europei nei programmi quadro Horizon 2020 ed Horizon Europe, e a incentivare il reclutamento di almeno 300 ricercatori vincitori dei grandi progetti del Consiglio Europeo della Ricerca (Erc).

Probabilmente, se le ingenti risorse messe a disposizione dal PNRR specificamente a favore della ricerca e dell’Università saranno utilizzate con tempismo e qualità, unitamente alle agevolazioni fiscali messe in campo e a efficaci campagne di informazione, l’attrattività del nostro Paese agli occhi di docenti e ricercatori e più in generale dei nostri lavoratori qualificati aumenterà sensibilmente nei prossimi anni con un impatto positivo su crescita e occupazione.

Condizioni necessarie ma non sufficienti se non cambia il “negativo contesto ambientale” che storicamente affligge in particolare il sistema della ricerca e dell’Università italiana rispetto ai modelli anglosassoni e del Nord Europa.

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