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Popolare Di Bari

Tutti i rischi per azionisti e obbligazionisti della Popolare di Bari

Rischio azzeramento delle azioni per i soci. I timori degli obbligazionisti. E non solo. Il futuro della Popolare di Bari dopo il decreto del governo che ricapitalizza il Mediocredito centrale (Mcc)

 

La lente della Consob sulla Banca Popolare di Bari è aperta da almeno quattro anni, da quando l’assemblea del 2015 svalutò le azioni di circa il 20%, portando il loro valore da 9,53 euro a 7,5 euro. I piccoli soci che provarono a rivolgersi alla banca per vendere le azioni illiquide, quindi non quotate, si videro rispondere che non c’era mercato e che al momento non era possibile farlo.

Molti di questi soci, anziani privi di una minima preparazione finanziaria a cui strumenti così rischiosi mai avrebbero dovuto essere venduti, iniziarono a rivolgersi agli avvocati e le prime cause squarciarono un velo sulla situazione dell’istituto, ‘affamato’ di capitale. Insieme alla Banca Popolare di Sondrio, dopo la riforma Renzi sulle banche popolari, la banca fondata dalla famiglia Jacobini è l’unica a non aver intrapreso il percorso per diventare una spa e recidere il legame con la base societaria. “Una testa, un voto”: a Bari è ancora così e i suoi 70mila soci (69.092, per la precisione, alla fine del 2018) possiedono azioni che oggi valgono 2,38 euro, il valore minimo registrato sul Borsino Hi-Mtf dove sono scambiate da pochi anni e dove i contratti di compravendita, solo nel 2018, sono stati 208. In circolazione, stando all’ultimo bilancio pubblico, ci sono poco più di 160 milioni di azioni ordinarie, per un valore di ‘mercato’ pari quindi a circa 381 milioni di euro.

Una valore altamente provvisorio al momento, visto che il commissariamento di Bankitalia e l’intervento dello Stato attraverso Mediocredito Centrale per ricapitalizzarla non fanno presagire nulla di buono su quello che potrebbe essere il valore delle azioni di nuova emissione.

Il rischio che gli attuali soci della Popolare siano azzerati è molto alto, quasi scontato, se lo schema dell’operazione dovesse ricalcare quello già visto in Banca Carige e se il buco patrimoniale da ripianare fosse di oltre 1 miliardo di euro. Nel caso della Popolare di Bari, non ci sono solo i soci a rischiare, ma anche gli obbligazionisti.

In circolazione ci sono tre bond subordinati targati Pop Bari, strumenti di debito di difficile rimborso in caso di default, come già si è visto nel caso di Mps, quando furono rimborsati in parte dallo Stato o, peggio ancora, nel caso delle quattro bad bank (Banca Marche, CariChieti, CariFerrara e Banca Etruria), quando i risparmiatori persero tutto. Le tre obbligazioni Tier 2 di Pop BARI sono di taglio diverso: una vale 6 milioni è scade il 27 novembre 2020. Una, da 15 milioni di euro con scadenza nel 2025, è stata “sottoscritta da un investitore istituzionale”.

La più corposa, emessa a fine 2014, nei mesi seguenti l’acquisizione di Tercas, è di oltre 213 milioni, paga una cedola del 6,5% e scade a dicembre 2021. Sono, si è appreso, diverse migliaia i risparmiatori retail ad averla sottoscritta.

Con almeno il 70% delle sua rete di filali concentrate al Sud, la Popolare di Bari è quello che Veneto Banca e la Popolare di Vicenza erano per il Veneto, o quello che Carige è tutt’ora per la Liguria. Con conti correnti da oltre 7 miliardi, è la banca di riferimento per le piccole medie imprese del territorio, e dà lavoro a 2.707 dipendenti.

Ma che cosa succederà ad azionisti e obbligazionisti?

Tutto dipenderà da quale forma prenderà esattamente il salvataggio, da quale sarà la perdita da coprire, e quindi il livello di partecipazione dei soggetti coinvolti (Fondo interbancario e Mediocredito Centrale). Senza contare che è ipotizzabile che il governo metta in campo misure compensative, ad attenuazione di eventuali perdite.

“Per i circa 69mila azionisti della popolare pugliese si prospetta un aumento iper-diluitivo, che avrebbe l’effetto di azzerare il valore delle azioni. Realistico d’altra parte che, come avvenuto nel caso delle banche venete, per i soci coinvolti ci siano poi indennizzi o meccanismi di compensazione a fronte delle perdite subite. Ma per questo servirà chiarezza da parte del governo, ha scritto oggi il Sole 24 Ore.

Il rischio azzeramento tuttavia è nei fatti. La banca ha un patrimonio di circa 440 milioni, ma si ipotizza una nuova perdita di circa 400 milioni. “Il rischio (inevitabile) è che gli indici patrimoniali, già fragili, scendano ulteriormente, anche sotto lo zero. E con essi anche il valore delle azioni, che non a caso già oggi è a livelli rasoterra”, ha aggiunto il Sole.

Dalla quotazione sul borsino Hi-Mtf, datata giugno 2017, il valore delle azioni è passato da 7,5 euro iniziali fino ad atterrare a 2,38 euro dell’ultima quotazione lo scorso 4 dicembre. Si tratta in verità di un valore virtuale, in verità, visto che anche a quel prezzo gli scambi erano sostanzialmente inesistenti.

Facendo un calcolo complessivo, considerando le circa 163 milioni di azioni in circolazione, la valorizzazione della banca pugliese bruciata dal 2016 – e con essa i risparmi dei soci – è stata pari a circa 1,5 miliardi, ha stimato il Sole.

Lo scenario peggiore è invece rappresentato da due parole che in questo momento è marginale e del tutto ipotetico, ma che rimane sul tavolo, ha scritto il Sole: “Ed è il burden sharing, ovvero il coinvolgimento di azionisti e detentori di bond subordinati. Uno scenario estremo, che al momento rimane sullo sfondo, e che tutti confidano di poter evitare. Se però per ipotesi non fosse questa la visione di Bruxelles, e tolto il rischio della liquidazione coatta amministrativa (che Bankitalia stessa ha voluto spazzare via, visto che costerebbe 4,5 miliardi), è questo il rischio più pesante che aleggia oggi sui soci della popolare pugliese”.

Secondo la “Banking communication” del 2013, infatti, in caso di dissesto di una banca è previsto che prima del coinvolgimento di fondi pubblici venga attuata la riduzione del valore nominale delle azioni e delle obbligazioni subordinate o la conversione in capitale di queste ultime. La normativa parla chiaro, scrive il Sole: “L’Ue può autorizzare l’intervento pubblico ma per limitare le distorsioni della concorrenza tra banche e ovviare al cosiddetto “rischio morale” impone che gli aiuti siano « limitati al minimo necessario». Non solo. Oltre alle azioni, a quel punto sarebbero oggetto di coinvolgimento anche gli strumenti subordinati: e come noto sul mercato ci sono 213 milioni di bond in mano al retail. Ovviamente, anche in questo caso, sarebbe ipotizzabile un meccanismo compensativo, come avvenuto nel caso di Mps, ad esempio”.

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