Anche la seconda riunione dell’anno del consiglio direttivo della Bce è terminata con un nulla di fatto. I tassi di interessi per ora restano inchiodati al livello raggiunto con l’ultimo rialzo del 20 settembre 2023.
Da allora è solo un susseguirsi di imbarazzanti arrampicate sugli specchi per giustificare la decisione di mantenere i tassi su quei livelli. Tutto questo pur in presenza di livelli di inflazione che, almeno in Italia, sono inferiori al 1% da ottobre 2023. Il problema è che su quel livello ci siamo solo noi, e la politica monetaria deve invece guardare alle condizioni degli altri 19 paesi dell’Eurozona.
Ai mercati è comunque bastata la prospettiva, sia pur lontana, per dare il via alla caccia agli acquisti dei Btp, con il tasso del decennale che in pochi minuti è sceso al 3,55%, livello che non si vedeva da dicembre scorso. In uno scenario di discesa dei tassi, il Btp è sempre più comprato del Bund tedesco e quindi lo spread è arrivato a ridursi fino a 130 punti base.
Il comunicato di Christine Lagarde e del suo consiglio direttivo è la plastica rappresentazione di chi stia vincendo oggi all’interno dell’Eurotower. Sono i Paesi come la Germania ed i suoi satelliti del Nord e dell’Est che continuano a manifestare una crescita dei prezzi relativamente più alta e una discreta pressione al rialzo dei salari. In quei Paesi un mercato del lavoro relativamente teso sta consentendo ai percettori di reddito fisso di recuperare potere d’acquisto, mentre in Italia le cose stanno diversamente per tre ordini di motivi.
In primo luogo, la trasmissione sui prezzi degli aumenti di costi energetici e degli altri input di produzione, da parte delle imprese, non è stata integrale ma c’è stato un, sia pur modesto, sacrificio dei margini di profitti. Da noi, l’inflazione cosiddetta “di fondo” è sempre stata inferiore a quella dei partner dell’euro. In secondo luogo, l’intervento dei governi Draghi e, in maggior misura, Meloni a favore dei lavoratori dipendenti con l’aumento del netto in busta grazie alla riduzione del cuneo fiscale, ha consentito un discreto, seppur parziale, recupero del potere d’acquisto eroso dall’inflazione.
In terzo luogo, il nostro mercato del lavoro non è sufficientemente “teso” per consentire che le rivendicazioni salariali abbiano successo. Le persone occupabili sono ancora tante, come testimoniano gli ultimi dati sulla crescita degli occupati.
A fronte di tale situazione, leggere che la Bce non si sente sicura nel prendere la strada al ribasso dei tassi, è la misura della distanza siderale che oggi esiste tra Roma e Francoforte. Le cui valutazioni sembrano provenire dalla Luna.
Se perfino il Financial Times ha presentato le decisioni odierne con un taglio critico, significa che forse la misura è colma. Da Londra hanno scritto che lo stato quasi comatoso dell’economia dell’eurozona – proprio la Bce ha oggi confermato che la previsione di crescita per il 2024 è ridotta al 0,6% – non è stato ritenuto sufficiente dalla Lagarde per ridurre i tassi.
La Lagarde ed i suoi colleghi non si sentono sufficientemente sicuri di aver definitivamente debellato l’inflazione, per imboccare con decisione la strada della riduzione dei tassi. Attendono ancora dati, alcuni ad aprile, altri a giugno. Quando è probabile che la riduzione possa avere inizio.
Forse a Francoforte attendono che il paziente sia completamento freddo, prima di decretare il successo dell’intervento?