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Decreto: aiuti contro il caro bollette o giochini delle 3 carte?

Focus sul decreto Aiuti ter. L'analisi di Giuseppe Liturri

Da venerdì pomeriggio il miracolo biblico della moltiplicazione dei pani e dei pesci è ufficialmente entrato nell’ambito delle possibili soluzioni di politica economica. Abbiamo assistito attoniti alla liturgia di una conferenza stampa in cui il Presidente Mario Draghi ed il ministro dell’Economia Daniele Franco hanno reso noto agli italiani di aver messo a loro disposizione ulteriori 14 miliardi di “aiuti”, senza aumentare il deficit. Spuntati dal nulla per miracolo.

Quello in arrivo è l’ottavo decreto, a partire da gennaio, con i quale la somma complessiva destinata a mitigare l’impatto della crisi energetica su imprese e famiglie, sale a un totale di 66 miliardi. A detta del governo, siamo tra i Paesi europei ad aver erogato i maggiori aiuti a famiglie ed imprese colpite dallo straordinario aumenti dei costi energetici.

Quegli aiuti sono pari a zero o poco più e si tratta di mere illusioni ed artifici contabili. Beninteso, non si contesta l’entità significativa dell’intervento del governo. Se ne mette però in dubbio l’efficacia complessiva, perché le somme erogate ad alcuni corrispondono a somme sottratte – via tagli di spesa o maggiori tasse – ad altri. Quei 66 miliardi provengono prevalentemente da due fonti: maggiori tasse versate dai contribuenti e minori spese precedentemente iscritte in bilancio ma poi tagliate per creare nuove coperture.

Sul primo fronte spicca l’IVA in crescita a due cifre perché calcolata su basi imponibili gonfiate dall’inflazione, accompagnata anche da una robusta crescita di Irpef ed Ires. Poi segue l’improbabile contributo straordinario sugli extraprofitti delle imprese del settore energetico, il cui gettito appare scritto sull’acqua e che finirà certamente sotto lo scrutinio della Corte Costituzionale. Infine, si si aggiunge anche il prelievo, eseguito dal Gse e riversato allo Stato, sugli extraprofitti dalla vendita di energie rinnovabili agli elevati prezzi correnti.

Quelle maggiori imposte che stanno gravando sugli italiani a causa dell’inflazione, avrebbero dovuto essere restituite senza ulteriori contropartite. Intestarle sotto la voce “aiuti” è un raggiro. Vorremmo ricordare che questa non è una nostra fantasiosa ipotesi perché negli anni ’90, due decreti legge disciplinarono la restituzione del cosiddetto “fiscal drag”, cioè l’aumento del prelievo fiscale conseguente all’aumento dei redditi nominali gonfiati dall’inflazione. Tale restituzione, pur tra mille ostacoli e difficoltà, continuò fino al 2000, ed era condizionata ad un’inflazione superiore al 2%. È pur vero che all’epoca si ragionò solo sull’effetto limitato alle imposte sul reddito, ma soprattutto oggi – visto che siamo oltre tale soglia da settembre 2021, con agosto al 8,4% – è opportuno che dal Mef giunga qualche cenno anche con riferimento al drenaggio eseguito dall’IVA in modo peraltro regressivo, cioè colpendo di più i redditi bassi. Invece incassano e basta. E lo ammettono pure affermando, nella relazione presentata al Parlamento l’8 settembre, che “la revisione al rialzo della previsione delle entrate è attribuibile alla componente tributaria per la quale il monitoraggio, aggiornato con le informazioni disponibili sui versamenti ad agosto segnala un aumento di circa 4 miliardi. Le maggiori entrate tributarie derivano principalmente, dal risultato dei versamenti per imposte dirette, in particolare IRPEF e IRES”. Tali maggiori entrate, solo tra luglio ed agosto, hanno aperto uno spazio fiscale di 6,2 miliardi, a cui si aggiungono le “razionalizzazioni degli stanziamenti di bilancio” ed il prelievo sulle rinnovabili, per giungere alla disponibilità totale di circa 14 miliardi. Su tale tecnica contabile non ha mancato di sollevare qualche perplessità anche l’Ufficio Parlamentare di Bilancio (Upb), sottolineando che, pur essendoci i presupposti per utilizzare quei 6,2 miliardi, “al momento, dunque, non è possibile fornire una valutazione puntuale dei saldi di finanza pubblica”. In altre parole, un monito a farla finita.

Sul fronte delle spese, sabato è stata la giornata in cui si è magnificata – non senza sprezzo del ridicolo – l’azione del ministro Franco, abile cacciatore di fondi nelle cosiddette “pieghe del bilancio” (alias “razionalizzazioni”), ma il bilancio non ha “pieghe” di sorta, qualsiasi cosa, cioè nulla, significhi questa espressione. Il bilancio dello Stato è fatto di “promesse” di spesa (sia perdonata la formula atecnica), quindi se si destinano quelle stesse somme verso nuovi beneficiari, a parità di saldo – come ha ammesso di fare il governo – si sta puramente e semplicemente tradendo una preesistente promessa. Cioè ci sarà qualche impresa, famiglia, Comune o Ministero da qualche parte dello Stivale che starà ricevendo dei soldi in meno rispetto a quanto pianificato. Oppure – nel caso quelle somme siano effettivamente eccedenti rispetto alla precedente pianificazione e conseguente fabbisogno dei legittimi beneficiari – si sta ammettendo di non aver saputo correttamente allocare la spesa pubblica secondo le effettive necessità, sbagliando clamorosamente le stime e scoprendo così in ritardo che quelle somme potrebbero essere liberate per altre finalità.

Onestamente, non sappiamo scegliere la peggiore tra queste due possibilità.

A livello macroeconomico per valutare l’azione di stimolo del governo verso l’economia conta solo un dato: il saldo finale del fabbisogno statale. Cioè la differenza tra quanto denaro (in questo caso aggiuntivo) lo Stato chiede ai cittadini con imposte e contributi e quanto ne spende con spese correnti ed in conto capitale. Se si stanno togliendo soldi da una voce per metterli su un’altra, nella migliore delle ipotesi si sta generando un effetto redistributivo. Ma oggi c’è bisogno che il settore pubblica aggiunga risorse, non si limiti a redistribuirle.

Ed i numeri del 2022 sono impietosi. Proprio giovedì Bankitalia ha comunicato che fino a luglio 2022, abbiamo assistito al prevedibile calo del fabbisogno del settore statale rispetto al 2021 per ben 45 miliardi, con gennaio, aprile, luglio ed agosto che hanno chiuso addirittura in avanzo. Ma nemmeno un centesimo in più è apparso nel saldo netto da finanziare inizialmente pianificato ricorrendo al mercato. Tutto è stato risolto spostando le stesse somme da un capitolo di spesa all’altro, come i carri armati di Mussolini.

Ma, se questo è il metodo adottato, al Mef basterebbe il mago Houdini.

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