I dati Istat sull’occupazione nel mese di gennaio confermano una leggera tendenza alla flessione che già si era manifestata a dicembre 2023: gli occupati diminuiscono di 34.000 unità, per effetto soprattutto del calo dei lavoratori autonomi (meno 24.000).
Interessante è però notare le dinamiche che nel gruppo dei lavoratori dipendenti hanno determinato una flessione, a dir la verità leggerissima (10.000 unità) dell’occupazione. Innanzitutto essa è effetto della combinazione tra un aumento dei lavoratori con contratto a tempo indeterminato (+5.000) e quelli a termine (- 15.000). Notizia per un verso positiva, perché conferma una tendenza in atto da molti mesi alla stabilizzazione dell’occupazione (nonostante le geremiadi di Landini e dei suoi alleati), però al tempo stesso la spia del fatto che anche l’economia si sta stabilizzando, ma di conseguenza tende a non crescere più, o comunque molto meno di prima.
Un’altra osservazione nel merito è che le imprese sono preoccupate di fidelizzare i dipendenti per almeno due ragioni (non necessariamente inscindibili): la difficoltà a trovare profili professionali adeguati (non necessariamente altissimi, però competenti) come certifica ogni mese l’Osservatorio Excelsior Unioncamere che denuncia un mismatch costante tra domanda e offerta di lavoro che si aggira attorno al 50%. In secondo luogo il bisogno di input di forza lavoro di cui hanno bisogno le imprese per ovviare alla scarsa innovazione e alla bassa produttività, soprattutto nel terziario.
Paradossalmente siamo di fronte a un’economia che, con l’eccezione di qualche comparto manifatturiero, crea occupazione, peraltro modestamente retribuita, come rimedio a una produttività che non cresce. Il che lascia intravedere un futuro complicato nel quale occorrerà decidere se vogliamo competere sul terreno dell’innovazione o su quello del basso costo del lavoro; o magari se avremo in Paese spaccato in due tra chi compete con l’Occidente industriale e chi con i Paesi in via di sviluppo.
Ci sono però altri aspetti di queste dinamiche che vale la pena approfondire: la prima è che l’occupazione cresce tra le fasce di popolazione più anziane (over 35) e cala in quelle più giovani (under 35). Questo è in gran parte un effetto ottico dovuto all’invecchiamento della popolazione, ma il calo occupazionale nella fascia più giovane è un gran brutto segnale dopo oltre un anno di crescita non clamorosa ma continua (il saldo tendenziale, ossia in ragione d’anno, è infatti ancora positivo).
Una nota confortante: l’occupazione femminile continua a crescere: +15.000 e + 1,9% tendenziale, ben superiore all’1,3% maschile.
Purtroppo non abbiamo ancora i dati per sapere quanto di questa occupazione sia part time, bug che spesso (soprattutto in caso di part time involontario) declassa l’occupazione femminile.
Da valutare con attenzione le dinamiche che portano alla definizione del tasso di disoccupazione, che a gennaio resta fermo al 7,2%. Attorno ad esso si muovono molte cose: la disoccupazione aumenta tra le donne e la popolazione over 50, ma questo dato si motiva con il fatto che in queste fasce cresce il tasso di attività, quindi più gente cerca lavoro. Ma in generale di tasso di inattività (chi non lavora e non cerca lavoro) aumenta di 0,2 punti, confermando una tendenza che, pur con cifre modeste, è attiva da qualche mese. Il che illustra, come gli altri dati considerati sopra, un calo di attività del Mercato del Lavoro.
In sintesi credo si possa prendere atto che la clamorosa ripresa produttiva e occupazionale del dopo covid sia terminata e ci lasci alle prese con un mercato del lavoro marchiato da quattro gravi problemi: un’incapacità di incontro tra domanda e offerta di lavoro, entrambe forti ma non comunicanti; un sistema produttivo in gran parte fondato sull’intensità di mano d’opera e quindi su bassi salari; una totale assenza di politiche attive del lavoro, capaci di favorire l’incontro domanda-offerta e le transizione nel mercato del lavoro; un invecchiamento costante della forza lavoro e un insufficiente ricambio generazionale.
Problemi che non spetta ovviamente all’Istat risolvere, ma alla politica, ai sindacati e alle organizzazioni imprenditoriali. Ma facendo un po’ in fretta, prima che questa situazione di sostanziale assestamento diventi stagnazione…