Dopo il lockdown e il cammino a ostacoli determinato dalla seconda ondata della pandemia, le imprese saranno davvero in grado di ripartire? E cosa è necessario fare per evitare che i nuovi strumenti emergenziali, pensati per proteggere il tessuto imprenditoriale, finiscano per tenere in vita aziende destinate a finire fuori mercato anche in condizioni normali?
In previsione di un incremento considerevole dell’insolvenza delle imprese, i provvedimenti emanati a oggi hanno tentato in varie forme di supportare il mondo dell’impresa, anche semplificando le esecuzioni esattoriali (L. 120/2020) e concedendo possibilità di rateizzazioni senza previsione di sanzioni e interessi, nonché la proroga dei termini per il versamento delle imposte su redditi o Irap per le imprese che hanno subito un calo di fatturato in misura almeno pari al 33% nel primo semestre 2020 rispetto allo stesso periodo nel 2019 (D.L. 30 settembre 2020 n.157). Accanto a tali misure si pone poi la riforma dettata dal Codice della Crisi e dell’Insolvenza (il “Codice”).
Nato dopo una lunga gestazione (dal 2017) il Codice, a seguito della pandemia, entrerà in vigore il 1° settembre 2021.
Sicuramente una riforma organica delle procedure concorsuali (con eccezione – purtroppo – dell’amministrazione straordinaria) era necessaria. Il Codice presenta spunti pregevoli quali, l’obbligo per l’impresa di dotarsi di modelli organizzativi adeguati per prevenire la crisi, la disciplina del gruppo insolvente con l’“istituzionalizzazione” dei vantaggi compensativi per consentire trasferimenti infragruppo, il coordinamento tra procedure concorsuali e misure cautelari penali.
Tuttavia vi sono molti aspetti irrisolti e molte ombre che diventano ancora più imponenti di fronte all’emergenza sanitaria in corso.
Il Codice infatti non facilita il concordato in continuità e sostanzialmente rende impossibile il ricorso al concordato liquidatorio, nulla dice sulla possibilità di soddisfare parzialmente i creditori privilegiati, lascia poco spazio alla negoziazione tra debitore e creditori, negoziazione che nei contesti di crisi appare fondamentale per la miglior salvaguardia dei valori aziendali e ingessa gli strumenti protettivi attraverso il perentorio passaggio presso organismi precostituiti.
Se la pandemia ha avuto un impatto significativo sulle imprese sane, a maggior ragione lo ha avuto sulle imprese già in difficoltà che dunque, più delle prime, hanno bisogno di un supporto, soprattutto laddove la pandemia si è verificata all’inizio di un percorso di risanamento o di ristrutturazione.
Attualmente non pare che la “normativa emergenziale” supporti in tal senso l’impresa in crisi né nella parte in cui può condurre a “erogazioni di credito irresponsabili” che, se non inserite in un preciso percorso, sono destinate solo ad aggravare l’indebitamento, né attraverso la previsioni contenuta nell’ art. 6 del Decreto Liquidità. Infatti il tenore letterale non chiaro della norma ha reso incerta la sua applicazione e ha imposto al Consiglio Notarile di Milano di specificare con la massima 191 che la sospensione dell’obbligo di riduzione del capitale a copertura delle perdite si applica a prescindere da quale sia la data di riferimento del bilancio di esercizio o della situazione patrimoniale infrannuale da cui emergono le perdite. Ma soprattutto per poter sostenere, soprattutto ex post, la fondatezza di tale esenzione occorrerà che l’organo amministrativo sia in grado di motivare in assemblea, la possibilità di applicare tale disposizione in quanto sussistente la prospettiva di continuità in equilibrio per gli anni successivi.
Ciò che realmente serve all’impresa in crisi è la possibilità di avviare un procedimento rapido, non burocratizzato che, mediante l’applicazione di normativa chiara e semplice, raggiunga gli obiettivi del risanamento anche attraverso il riconoscimento della legittimità di convenzioni con i creditori, con le conseguenti esimenti di natura penale, in grado di garantire dilazioni delle scadenze dei crediti e/o sospensione di procedure esecutive e/o esecutive e/o anche nuova finanza, tutto ciò nell’ambito di un iter che dovrebbe sempre essere supportato dalla presenza di esperti indipendenti specializzati e, a seconda della gravità della crisi, monitorato sulla falsa riga di quello che era, ad esempio, il procedimento – ora abrogato – dell’amministrazione controllata.
Come già stato autorevolmente sostenuto (Vittorio Minervini), forse, in epoca di pandemia non ci si dovrebbe più riferire all’insolvenza, quanto piuttosto alla “risanabilità”, distinguendo tra imprese che, seppur tecnicamente insolventi, hanno comunque i presupposti per poter essere risanate e per divenire profittevoli in una prospettiva di medio lungo periodo.
Per compiere tale valutazione e individuare gli strumenti protettivi più idonei al risanamento, occorrono profili professionali di grande competenza, esperienza ed equilibrio che, insieme ai professionisti che assistono i creditori, sappiano coniugare le loro professionalità al fine di conseguire la massima valorizzazione dei valori dell’impresa nel comune interesse dei creditori e dell’impresa medesima.
Profili che il legislatore del Codice sembra dimenticare quando, non solo riduce i requisiti per potere essere ammessi all’albo – già variamente composto – dei soggetti precostituiti per la gestione e il controllo nelle procedure protettive, ma addirittura a) subordina la prededucibilità del compenso del professionista, comunque nei limiti del 75%, al conseguimento di un determinato risultato e b) esclude il riconoscimento della prededucibilità ai crediti professionali per prestazioni rese su incarico conferito dal debitore a soggetti diversi dall’Organismo di composizione della crisi di impresa durante la procedura di allerta e composizione assistita della crisi.
Chissà se il Black Swan (come Nassim Taleb ha definito il Covid 19) offrirà l’occasione per imparare ad offrire alle imprese strumenti effettivamente utili ed efficaci per affrontare la crisi. Per ora non ci siamo riusciti.