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Imprese

Cosa può fare davvero la politica per rilanciare l’economia?

Con gli interessi sul debito che restano bassi, si potrebbe aprire una finestra di opportunità per aumentare la spesa in infrastrutture. Il commento di Richard Flax, Chief Investment Officer di Moneyfarm

Con l’Economia e la pandemia che sembrano recedere in tutto il mondo è arrivato il tempo di contare i danni. La situazione è drammatica e purtroppo ben nota: la Cina, che ha portato un contributo decisivo alla crescita economica negli scorsi decenni, ha fatto registrare la sua prima contrazione economica in oltre 40 anni, mentre l’Europa e gli Stati Uniti faranno registrare in questo trimestre contrazioni del Pil al livello di quelle degli anni ‘30.

La politica globale ha in questi mesi creato una sorta di aspettativa nei mercati, ma superata la fase dell’emergenza ora i nodi vengono al pettine, come ci ricordano con molta evidenza le divisioni che si sono generate all’interno dell’Unione Europea. Divisioni che, se possono sembrare in parte superate in seguito al Consiglio Europeo del 23 aprile, nascondono in realtà ancora grosse difficoltà nell’accordarsi su come attuare le misure adottate. Tutti d’accordo sulla necessità di intervenire con urgenza, meno sul come farlo. Se da un lato i 27 Paesi dell’UE hanno appoggiato pienamente gli strumenti già emersi nel corso della scorsa riunione dell’Eurogruppo (MES senza condizioni, i finanziamenti della BEI e il piano SURE per la disoccupazione), sul fronte Recovery Fund, invece, bisognerà attendere la Commissione che dovrà studiare l’architettura del fondo e valutarne la fattibilità: ma sono ancora marcate le differenze tra gli Stati su come finanziare il fondo e come utilizzare le risorse.

La questione è estremamente rilevante per i mercati, perché fino a ora la politica è stata scontata come un fattore positivo, con poche domande si sorta. Il recupero che abbiamo visto sui listini è, in parte, dovuto proprio alla sicurezza che i governi e le banche centrali faranno tutto quello che serve per sostenere l’impatto sull’economia nel breve – lasciando per il momento in secondo piano la valutazione delle conseguenze di lungo termine (i più critici potrebbero dire che i mercati, oggi, sono sostenuti da una buona dose di azzardo morale).

La domanda che ora i mercati si pongono dunque è la seguente: riusciranno i governi a mantenere la promessa? E quanto spazio di manovra hanno effettivamente i governi per sostenere l’economia? E chi pagherà il conto? Alla luce di ciò, nonostante le ingenti risorse messe in campo, sta diventando sempre più evidente che riportare l’economia nella posizione dove si trovava un paio di mesi fa non sarà semplice, forse meno semplice di quanto in molti si aspettassero. E che ben presto si dovrà fare i conti con il problema della scarsità delle risorse e delle scelte.

Per quanto riguarda la gestione dell’emergenza bisogna dare merito al merito: le risposte della politica a livello globale sono state – nella maggior parte dei casi – rapide ed estensive al pari della diffusione della pandemia. I governi, che solitamente non sono noti per la propria velocità, hanno messo in campo piani di aiuti colossali per supportare le proprie economie. Mentre le banche centrali hanno aperto i cordoni della borsa per rassicurare i mercati e restaurare la fiducia.

La risposta immediata dei governi, ognuno con le proprie possibilità, è stata quella di aumentare le spese sanitarie e di welfare, queste spese andranno a pesare sul bilancio di molti Stati. Purtroppo, molti di questi investimenti sono dettati da necessità emergenziali – al fine di mantenere in vita le filiere e far fronte all’emergenza – e potrebbero andare a levare risorse a investimenti più strutturali ad alto moltiplicatore che si renderanno necessari nella fase 2.

Guardando più avanti, alla fase della ripartenza, una soluzione per provare a incentivare una ripresa dettata dai consumi potrebbe essere quella di trasferire denaro direttamente nelle tasche dei cittadini, con una politica simile a quelle che vengono annoverate sotto il cappello di “helicopter money”. Il governo Usa ha già trasferito denaro sui conti correnti sotto forma di sgravi fiscali e il Regno Unito, attraverso il Jobs Retention Scheme lanciato questa settimana, ha di fatto messo a bilancio una porzione significativa delle buste paga del settore privato.

L’idea di introdurre un salario universale di base sta guadagnando popolarità in molti paesi, tra cui la Finlandia e l’Olanda. Si tratta di una politica in cui lo stato, di fatto, mette a libro paga l’intera popolazione. Il salario base universale può essere una soluzione efficace per rilanciare la fiducia dei consumatori, ma non è priva di controindicazioni. Esiste innanzitutto una questione di equità. Queste politiche, pur diverse tra loro, differiscono dai tradizionali strumenti di welfare nel fatto che non operano alcuna (o una molto limitata) discriminazione tra i beneficiari: ciò vuol dire che di fatto i più abbienti ricevono lo stesso sostegno di chi ha più bisogno. Secondo alcuni questo tipo di politiche, se rese strutturali, potrebbero avere addirittura l’effetto avverso di creare una distorsione nel mercato del lavoro. Si aggiunga a questo che, in una situazione come quella attuale, dove molte famiglie puntano a costruire riserve di liquidità, non è assolutamente scontato che queste misure sortiscono l’effetto sperato. Seppure sia ancora presto per avere un verdetto, non è affatto garantito che questo tipo di misure, se rese più strutturali, siano il modo migliore di investire le risorse pubbliche.

Gli investimenti pubblici sono invece la via più classica. Con gli interessi sul debito che restano bassi, si potrebbe aprire una finestra di opportunità per aumentare la spesa in infrastrutture. Già in queste primissime fasi abbiamo iniziato a vedere segnali in questa direzione. Negli Stati Uniti, Trump ha annunciato di voler mettere in piedi un piano da 2000 miliardi. Nel Regno Unito un progetto controverso per i suoi costi, come la linea ferroviaria ad alta velocità HS2, ha ricevuto il via libera. In una fase di recessione, con molta liquidità a disposizione, possiamo aspettarci che il rigore che di solito viene adottato nel valutare la sostenibilità economica dei progetti venga rilassato: è lecito aspettarsi un gran numero di nuovi annunci sulle grandi opere nei prossimi mesi.

Un’altra voce di spesa che ci aspettiamo diventare più prominente nei prossimi anni è quella dei salvataggi pubblici (bail out). La maggior parte degli Stati ha messo in campo strumenti per sostenere attraverso iniezioni di liquidità le piccole aziende, quelle che più sono colpite dal lockdown, ma ben presto si porrà sul tavolo la questione di interi settori (il turismo in Italia, l’aviazione a livello globale, il petrolio negli Usa tanto per citarne alcuni).

La prima questione è di natura politica ed è per quanto tempo lo stato sceglierà di sostenere le piccole aziende e quali settori saranno considerati strategici? La seconda domanda è quali saranno le condizioni di questi salvataggi? Evidentemente la questione politica è scottante, specialmente in un contesto di recessione e risorse scarse.

Lasciando da parte la questione dell’azzardo morale, molte compagnie che oggi chiedono sostegno hanno speso moltissimo della propria liquidità per riacquistare sul mercato le proprie azioni negli ultimi anni ed è probabile che l’opinione pubblica esigerà qualcosa in cambio. Non è da escludersi che nei prossimi anni torneremo a vedere alcuni settori dell’economia tornare parzialmente sotto il controllo degli Stati.

Una considerazione finale può essere fatta sul commercio globale. La pandemia ha portato molti Paesi a riconsiderare la sicurezza delle proprie catene del valore al fine di garantire un approvvigionamento costante di beni necessari alle popolazioni. La conclusione a cui potrebbero arrivare molti governi è che le catene del valore sono troppo lunghe e troppo dislocate. È lecito aspettarsi che i governi globali impiegheranno risorse per sostenere le filieri locali. Il Giappone, per esempio, ha già messo a disposizione fondi per le aziende che vorranno rilocalizzare parte delle proprie attività. Questa dinamica, potrebbe esaurirsi nel medio periodo in un aumento dei prezzi al consumo. Questo porta a un’ulteriore considerazione: in questo momento l’inflazione sembra l’ultimo problema all’ordine del giorno, anche considerando quanto sta succedendo sul mercato energetico.

Moltissimo si è discusso negli ultimi anni di come innovazione tecnologica e disoleazione delle catene del valore avessero rotto la tradizionale catena di trasmissione tra politica monetaria, mercato del lavoro e inflazione. Forse è arrivato il momento per i governi di incassare parte di questo dividendo, immaginando nuove soluzione per gestire in modo più strutturato i debiti pubblici che andranno necessariamente a crescere in questa fase.

La domanda che infatti crea molta incertezza tra gli investitori è: chi andrà a pagare tutte queste misure? Seppur i prossimi anni potrebbero portare con sé importanti innovazione dal punto di vista della gestione dei debiti pubblici e della politica fiscale, è probabile che nel medio termine privati e imprese saranno chiamati a pagare la loro parte, con tutte le ramificazioni politiche che ne conseguono. In attesa, dunque, di significative novità da parte delle autorità monetarie o sovranazionali (il dibattito su forme di mutualizzazione del debito in Europa è da seguire con molta attenzione), molti governi dovranno affrontare la fase due con questo pensiero in testa e ciò potrebbe pesare sulla ripresa economica.

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