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Mes

Conviene o no accedere al Mes?

Ci conviene o no accedere alla linea di credito senza condizioni al Mes per le spese sanitarie? L'approfondimento di Gaetano Caputi per L'Occidentale

Come era prevedibile, concentrare il fuoco della polemica su un tema non attuale – chi, quando, come e perché ha deciso che l’Italia dovesse aderire al Mes – sta facendo perdere di vista l’unico interrogativo oggi davvero stringente: ci conviene o no accedere alla linea di credito senza condizioni per la spesa sanitaria? Col risultato che lo scontro si è fatto tutto ideologico, con schieramenti trasversali e spesso puramente tattici, allontanando l’attenzione dalla realtà dei problemi in campo.

Un passo indietro aiuterà a mettere ordine e a farsi un’idea più consapevole. Il Mes, in base al trattato istitutivo del febbraio del 2012, entrato in vigore nel finire dello stesso anno con ratifica da parte di 17 Stati dell’area euro più Lettonia e Lituania, è una organizzazione intergovernativa di diritto pubblico. È dotato di un capitale sottoscritto di 704.798.700.000 euro, diviso in quote del valore nominale di 100.000 euro sottoscritte dai Paesi aderenti sulla base del modello di sottoscrizione del capitale Bce da parte delle banche centrali nazionali, ai sensi degli articoli 8 e 11 del Trattato istitutivo. Conseguentemente, l’allegato I al Trattato prevede la ripartizione percentuale delle quote: per l’Italia, pari al 17,7%.

In virtù di tale misura percentuale l’Italia, aderendo al Trattato, ha sottoscritto quote del capitale per 125,3 miliardi di euro. Di questi sono stati effettivamente versati circa 14,3 miliardi. Guardando al totale, lo stock di capitale di quote effettivamente versate da parte di tutti gli aderenti ammonta ad oggi a 80,5 miliardi di euro circa. Per il resto, la capacità operativa del meccanismo è rimessa alla disponibilità delle quote richiamabili.

Il punto è proprio qui. In base al Considerando 6 del trattato istitutivo del Mes, infatti, “il volume della capacità massima iniziale di finanziamento erogabile dal Mes è fissato a 500.000 milioni di euro, incluso il sostegno in essere alla stabilità del Fesf. (…) Se del caso, esso sarà aumentato dal consiglio dei governatori del Mes, a norma dell’art. 10, previa entrata in vigore del presente trattato.”. Ciò significa che le risorse effettivamente versate ad oggi nel capitale non impediscono al Mes di operare (e anche per un apprezzabile volume complessivo), ma è altresì evidente che se si auspica un impiego della capacità finanziaria dello strumento elevata alla sua massima potenza, ciò richiede una messa a disposizione di corrispondenti risorse finanziarie da parte degli Stati membri. Dunque, l’obbligo di versamento effettivo – più precisamente il “richiamo” – delle quote di partecipazione già sottoscritte dagli Stati e oggetto di irrevocabile impegno al versamento “in qualsiasi momento” e in un “congruo termine”, come previsto dall’art. 9 del trattato.

Per attivare questa procedura è sufficiente una decisione adottata a maggioranza semplice dal consiglio di amministrazione, qualora ciò occorra per ripristinare il livello del capitale versato in conseguenza di perdite. Qualora invece risultasse necessario per assicurare il rispetto di impegni finanziari assunti, il trattato prevede l’impegno “incondizionato” e “irrevocabile” a versare il capitale entro sette giorni dalla richiesta del direttore generale. Cioè di un organo del Mes essenziale nelle sue strategie di funzionamento, la cui nomina avviene con un voto a maggioranza qualificata (80% del capitale) che consente a Germania e Francia, in considerazione della percentuale di voti di cui dispongono, di determinare la maggioranza occorrente. Opportunità di cui l’Italia, invece, non dispone per la quota di partecipazione sottoscritta.

Nello scenario determinato dall’emergenza da Covid-19 queste coordinate determinano conseguenze evidenti.

Se si auspica un impiego della capacità finanziaria del Mes fino a coprire il massimo di disponibilità consentita per lo Stato italiano, pari al 2% del Pil – quindi in misura non ancora determinabile esattamente, ma comunque che potrebbe attestarsi intorno ai 35-36 miliardi di euro – non sembra irragionevole supporre che analoga richiesta possa essere legittimamente avvertita anche da parte di altri Stati membri, in considerazione del carattere transnazionale e trasversale dell’impatto del Covid-19, non certo limitato dai confini nazionali, e della sua ricaduta sulle strutture sanitarie e sui sistemi economici dei diversi Paesi. Conseguentemente, sarebbe prevedibile che anche altri Stati membri possano invocare l’utilizzo del Mes al massimo della sua capacità finanziaria.

Tradotto: risulta difficile pensare di poter far fronte a tutti gli impegni auspicando la più elevata capacità di finanziamenti, dovendo ipotizzare una richiesta di accesso da parte di diversi Paesi, ma al contempo mantenendo inalterato il limite complessivo di capitale versato a 80,5 miliardi. Sicché quanto più si auspica che il Mes attivi una leva finanziaria corrispondente al suo massimo volume, e quanto più ci si augura che ciò corrisponda ad una istanza condivisa da tutti i Paesi, tanto più necessario si pone l’obbligo di versamento delle quote dovute da ciascun Paese “incondizionatamente e irrevocabilmente”.

Questo perché la dotazione attuale del Mes di 80,5 miliardi, pensata e reputata adeguata per un periodo privo della eccezionalità oggi denunciata, si rivelerebbe immediatamente insufficiente, richiedendosi l’adeguamento alle condizioni e nei termini già convenuti nel Trattato.

Il fatto che la quota di capitale da versare (circa 111 miliardi su 125, nel nostro caso) possa essere reperita sui mercati finanziari con l’emissione di appositi strumenti di debito corrisponde ad un dato ovvio; ciò implica che quegli strumenti finanziari debbano essere garantiti e onorati, con il pagamento di relativi interessi e commissioni. Di fronte ad un obbligo di versamento per lo Stato membro, questo è libero di reperire le risorse come meglio ritiene opportuno: in genere, in tempi moderni, e senza troppa fantasia, o attraverso la leva fiscale o attraverso il debito.

Non resta che la scelta. E, francamente, non sembra troppo difficile immaginare l’esito.

Tanto precisato, sembra che, se il problema sia accettare o meno le risorse del Mes, come pare emergere dal dibattito recente, sia mal posto.

In primo luogo perché non si tratta di accettare o meno una graziosa elargizione, ma di richiedere – o meno – di accedere ad un finanziamento che poi dovrà essere onorato e restituito. È ragionevole che sia emesso alle migliori condizioni, ma è innegabile che allo stato non sappiamo chiaramente ancora in che termini esatti e con quali accessori (non sempre necessariamente solo finanziari).

In secondo luogo, scegliere di avvalersi delle risorse sopra indicate, certamente significative, ma evidentemente inadeguate per l’ampiezza e la profondità delle conseguenze cui il nostro Paese deve far fronte (si ripete, non più del 2% del Pil, utilizzabile per la sola emergenza sanitaria, a fronte di una caduta del Pil per il 2020 allo stato stimata in non meno del 9% per l’Italia), comporta l’esito molto più che probabile di dover provvedere – presto o tardi – ad integrare i versamenti già effettuati in un quadro di interventi reclamati anche da parte degli altri partner. Come dire che un’assicurazione, preziosa e utile in sé, rischia però di comportare il pagamento di un premio superiore all’indennizzo ottenibile.

Ma soprattutto l’aspetto più insidioso sul quale finora il dibattito non sembra avere prestato la dovuta attenzione è su cosa porti necessariamente con sé l’accettazione del nuovo Mes, del quale quella ora ipotizzata sarebbe una modalità di funzionamento in deroga.

In altri termini, accedere al finanziamento limitato di cui ora si discute significa accettare definitivamente l’intero impianto che è alla base della riforma del Trattato istitutivo del Mes, oggetto – questo sì – di vivace dibattito in Parlamento e nel Paese nei mesi scorsi. Soprattutto perché, accanto al tema della condizionalità richiesta per le linee di finanziamento che potrebbero essere concesse ai Paesi richiedenti (linea di credito condizionale precauzionale a condizionalità semplificata o a condizioni rafforzate, ai sensi degli articoli 13 e 14 del Trattato) la revisione prevede di utilizzare il Mes per la risoluzione delle crisi bancarie, ai sensi dell’art. 3, par. 2 del Trattato nella sua versione riformata. Cioè, prevedendo che quando gli strumenti di intervento alimentati dai contributi delle banche e delle istituzioni finanziarie private si rivelino non più sufficienti, si possa fare ricorso alle risorse (pubbliche) del Mes per fornire le risorse finanziarie occorrenti.

Quindi, a ben vedere, oggi non si tratta di “accettare o rifiutare” finanziamenti del Mes. Il problema non è ideologico, ma prettamente pragmatico, cogliendo davvero cosa c’è sul piatto della bilancia. E cioè essere consapevoli che scegliere di ottenere i finanziamenti derivanti da una sorta di fondo comune tra i Paesi aderenti per il sostegno in casi di squilibrio finanziario – come detto, in misura non certo risolutiva e piuttosto limitata quantitativamente e per finalità di destinazione – implica inevitabilmente accettare la verosimile conseguenza di vedere immediatamente salire il livello di debito complessivo del nostro Paese in misura più che proporzionale rispetto ai benefici ottenuti. Quindi, accentuare ancora di più il profilo di maggiore esposizione nel confronto internazionale e con i partner europei, indebolendo la posizione finanziaria comparata e la capacità di trattativa e relazione sui tavoli negoziali Ue.

Ma soprattutto significa accettare immediatamente e irrevocabilmente l’aspetto più innovativo e insidioso del nuovo Mes, e cioè la possibilità che il più poderoso strumento di aiuto finanziario messo in piedi dai Paesi dell’Unione con risorse pubbliche sia posto a servizio della risoluzione di crisi finanziarie private scatenate in ambito bancario.

Ancora una volta, con questo meccanismo di sostituzione del debito privato con risorse pubbliche sembra ripetersi quanto accadde all’alba della crisi dei debiti sovrani dell’Eurozona, quando fu data ai debitori privati (banche e istituzioni finanziarie) la sicurezza di poter contare sempre sul sostegno pubblico di ultima istanza, intervenendo comunque una istituzione pubblica con risorse dei contribuenti per salvare soggetti privati che non sono più in grado di far fronte ad impegni assunti nell’esercizio di attività speculativa. Si badi, non una sostituzione di debito privato in situazioni di eccezionalità e imprevedibilità, come per esempio quella dettata da un virus prima sconosciuto che improvvisamente si rivela in grado di piegare i sistemi sanitari e paralizzare le economie dei diversi Paesi, con il rischio di innescare incontrollabili conseguenze sociali. Ma del debito accumulato da attività finanziaria e speculativa rivelatasi inappropriata e contraria a criteri di prudente gestione in tempi di normalità. Perché la riforma del Mes che necessariamente dovrebbe essere accettata è stata ideata ed è destinata a funzionare al di fuori dello scenario di emergenza da Covid-19.

Quella che appare la scelta su una soluzione utile ma meramente emergenziale, parziale e forse non adeguata su cui si è concentrato il dibattito attuale, quindi, dovrebbe opportunamente evidenziare anche il prezzo vero che necessariamente comporta l’adesione alla riforma del Mes.

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