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Piattaforma Lavoro

Più contratti stabili nel 2018. È davvero merito del decreto Dignità? Fatti, numeri e analisi

L'analisi di Francesco Seghezzi, direttore Fondazione Adapt

Aumentano i contratti a tempo indeterminato, aumentano le trasformazioni. Ma non sappiamo se è un effetto momentaneo e cosa ci aspetta con la crisi alle porte.

Duecentomila contratti stabili in più nel 2018. È davvero merito del Decreto dignità? foto 1

Nel corso di tutto il 2018 abbiamo visto un processo di crescita del numero di contratti trasformati da tempo determinato a tempo indeterminato oltre che una crescita di nuovi contratti a tempo indeterminato. Le ragioni sono diverse: prima dell’approvazione del decreto dignità i motivi erano principalmente la presenza dell’incentivo fiscale per l’assunzione o la trasformazione dei giovani under 35 (che ha inciso soprattutto sulle nuove assunzioni direttamente a tempo indeterminato) e la presenza di molti contratti a termine in scadenza che non potevano più essere rinnovati. O l’impresa assumeva a tempo indeterminato o perdeva il lavoratore, che nel frattempo magari aveva formato, soprattutto nei contratti a 24 o 36 mesi.

Dopo il decreto dignità questa dinamica si è accelerata, soprattutto al termine del periodo transitorio dopo il 31 ottobre 2018. La stretta sui contratti a tempo ha messo le imprese davanti alla scelta di dover lasciare a casa tutti i lavoratori a termine e in somministrazione e assumerne altri (con contratti non oltre i 12 mesi) o di fare questa operazione solo con alcuni convertendone altri a tempo indeterminato.

E così hanno fatto molte imprese, come mostrano proprio i dati sulle trasformazioni. Se a novembre del 2017 erano stati 22mila i contratti trasformati, nel 2018 sono stati 46mila, a dicembre invece siamo passati da 30mila a 68mila, una crescita considerevole che non si spiega con la sola congiuntura. Congiuntura che peraltro sappiamo essere negativa.

Duecentomila contratti stabili in più nel 2018. È davvero merito del Decreto dignità? foto 2

Nello stesso arco di tempo le imprese hanno rallentato le assunzioni a tempo determinato e in somministrazione a causa delle nuove regole, provando dove possibile a prolungare i contratti (e infatti le cessazioni sono diminuite).

È molto probabile quindi che molti lavoratori a termine abbiano visto il loro contratto scadere senza un rinnovo e questo spiegherebbe l’aumento delle domande di disoccupazione a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi. Infatti se il numero di contratti netti (assunzioni meno cessazioni) a tempo indeterminato è aumentato di 200mila unità nel 2018 il numero di quelli a termine è diminuito di 350mila unità.

Il governo quindi può sicuramente festeggiare il travaso positivo di contratti a tempo in contratti permanenti, che era l’obiettivo del Decreto dignità, questo è innegabile. Ma allo stesso tempo c’è tutta una fetta di lavoratori, che non possiamo ancora quantificare, che si è ritrovata senza un lavoro alla conclusione del contratto a termine, e che potrebbe ingrossare le fila dei nuovi percettori del reddito di cittadinanza. Ma soprattutto il rischio è quello di un blocco del mercato del lavoro in una situazione economica di recessione e di calo della produzione industriale.

Una stretta sulla flessibilità in ingresso come quella compiuta dal decreto dignità infatti, unita all’investimento fatto per le stabilizzazioni, potrebbe comportare uno stop alle assunzioni e la stagnazione del mercato del lavoro italiano. Senza contare poi che un mercato del lavoro tutto a tempo indeterminato oggi è veramente difficile da immaginare.

 

Estratto di un articolo pubblicato su Open.online

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