Il Dipartimento all’Informazione e all’Editoria, quando era Sottosegretario il tanto vituperato Crimi, presentò, durante gli Stati Generali dell’Editoria, altrettanto boicottati, nel 2019, i dati dello studio condotto relativamente alle politiche di sostegno all’editoria nei principali Paesi dell’Unione Europea. Dati che pur non essendo in linea con le tesi del M5S sono stati, appunto, presentati senza nessun ostacolo, a testimonianza, se necessario, di buona fede e, ancora una volta, assoluta trasparenza.
Da allora sono cambiati due governi, e due sottosegretari. L’attuale, Moles, ha deciso di aggiornare i dati già in possesso del Dipartimento ed ha pubblicato in questi giorni i risultati di uno studio paneuropeo sule misure di carattere diretto [consistenti in finanziamenti a fondo perduto erogati direttamente nei confronti delle singole imprese editrici] e di carattere indiretto [relative a modalità di sostegno che non determinano erogazioni finanziarie a fondo perduto, pur andando a beneficio delle singole imprese editrici]. A tale suddivisione ne è stata affiancata una terza [denominata Covid-19] concernente le misure una tantum adottate in favore delle imprese editoriali.
L’analisi delle misure di finanziamento a sostegno dell’editoria, prese in esame dallo studio, riguardano otto Paesi europei [Austria, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Norvegia, Regno Unito e Svezia] cui si affianca la disamina delle misure vigenti in Italia. Abbiamo deciso, naturalmente, di concentrarci proprio su questi ultimi, su quelli relativi all’Italia.
Prima di entrare nel dettaglio di quanto emergente ci pare opportuno, anzi necessario, sottolineare che lo studio, senza nulla togliere al lavoro degli eccellenti funzionari del Dipartimento, si focalizza su aspetti meramente quantitativi, avendo come finalità di fondo quella di dimostrare che «le misure adottate in Italia a favore del settore editoriale, spesso poste all’indice come del tutto originali, possono essere iscritte a pieno titolo nel contesto degli ordinari interventi presenti in alcuni paesi europei; di talché quelle italiane non si configurano né come un unicum, né come modello a sé stante nel panorama europeo».
Non vi sono dunque elementi qualitativi di valutazione delle misure adottate. E infatti nel documento del Dipartimento si legge che «È opportuno chiarire che il presente studio intende effettuare una comparazione puramente puntuale e descrittiva delle misure, prescindendo dall’analisi di efficacia delle stesse». E qui sta il punto. Come vedremo.
Complessivamente, tra il 2020 e il 2021, i contributi all’editoria sono più che raddoppiati [+120%] rispetto al 2019. Questo nonostante non venga preso in considerazione il valore dell’Iva agevolata al 4% che pare essere «un importo non quantificabile dal Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria». Agevolazione che, va detto, non riguarda solo i giornali – e periodici e libri [inclusi e-book] – ma resta comunque singolare, per così dire, che un ente statale non sia in grado di stimare il valore di tale agevolazione concessa dallo Stato stesso.
Non sono presi in considerazione neppure i dati sulla pubblicità legale, che tra il 2016 e il 2021 sono pari a circa 300 milioni di euro. Cifra tutt’altro che trascurabile, dove il maggior peso è proprio quello dei ricavi derivanti dall’obbligo per le pubbliche amministrazioni di pubblicazione degli avvisi di gara e aggiudicazione.
E non vengono neppure presi in considerazione gli importi per i prepensionamenti dei giornalisti e del “salvataggio” dell’INPGI, che secondo le stime del Fatto Quotidiano ammontano a ben 2,5 miliardi di euro. Come non sono conteggiati gli “aiuti” alle agenzie di stampa, che tante controversie hanno generato in questi anni.
Tutti elementi che cambierebbero in maniera significativa la comparazione effettuata dal Dipartimento con gli altri Paesi europei analizzati nello studio relativamente alle risorse pro-capite e alla loro incidenza sul PIL di ciascuna nazione, anche in considerazione degli ulteriori 350 milioni di euro stanziati nella manovra di bilancio approvata la scorsa settimana dal Consiglio dei Ministri del Governo Draghi.
Fatta questa doverosa premessa, entriamo nel merito dei contributi statali sin qui erogati, cercando, per quanto possibile, di esaminarne soprattutto gli aspetti qualitativi.
CONTRIBUTI DIRETTI
Dopo essersi progressivamente ridotti dal 2010 in poi, a partire dal 2019 i contributi diretti, di soppiatto, sono tornati a crescere negli ultimi tre anni. Nel 2021 sono stati più di 88 milioni di euro. Una crescita del 6%, tutto sommato relativamente contenuta, il cui problema non sta nelle somme erogate ma nella concentrazione di tali somme in favore di pochi “fortunati”, che molto spesso sono molto border line, diciamo, relativamente alla titolarità di riceverli, qual è il caso di Libero, Il Foglio e altri ancora.
Se a questo si aggiunge che è stata introdotta, relativamente all’annualità di contributo per l’anno 2019, la possibilità di posticipare la verifica della regolarità previdenziale e fiscale delle imprese beneficiarie al momento del saldo, anziché al momento del pagamento della rata di anticipo, si inizia a sentire puzza di bruciato.
Puzza di bruciato che diviene insopportabile, per continuare nella metafora, quando si vede che ad oggi è stato accertato a seguito dei decreti di annullamento adottati dall’amministrazione un indebito pari a circa 85 milioni di euro, corrispondente al 9,87% dei contributi erogati. Probabilmente solo una parte di quelle che effettivamente sono violazioni.
Al riguardo il manuale utente per la richiesta di contributi fornisce elementi sul funzionamento dell’erogazione di contributi, evidenziando come non vi sia alcun parametro qualitativo per la definizione dell’erogazione dei contributi. Senza dimenticare che per 2020 e 2021 il rapporto tra copie vendute e distribuite viene ridotto al 25 per cento delle copie distribuite per le testate locali e al 15 per cento per le testate nazionali, in luogo delle maggiori percentuali, il 30 per cento per le testate locali e il 20 per cento per quelle nazionali previste dalla lettera e, comma 1 dell’articolo 5 del decreto legislativo 15 maggio 2017, n. 70.
E anche su questo aspetto, per dirlo in una battuta, casca l’asino. Infatti a decorrere dal 31 dicembre 2017, è divenuta obbligatoria la tracciabilità delle vendite e delle rese di quotidiani e periodici, attraverso l’utilizzo di strumenti informatici e telematici basati sulla lettura del codice a barre [originariamente prevista, a decorrere dal 1° gennaio 2013, dal D.L. 63/2012-L].
Legge che, ad oggi, non è mai stata applicata. Così come non è mai stata implementata l’informatizzazione delle edicole, divenuta legge nel maggio del 2012 e mai applicata nonostante, a parole, già dal marzo 2012 [più di nove anni fa], la FIEG dichiarasse che «Fra gli interventi per modernizzare e valorizzare la filiera distributiva la Fieg, che sta già lavorando all’informatizzazione della rete, valuta come opportunità positiva la possibilità di maggiori flessibilità per le singole edicole per la vendita di giornali e riviste».
Quindi non si applicano le leggi dello stato e si erogano contributi sulla base di dati certificati da società autorizzate allo scopo. Revisori che in più di un caso non hanno un percorso esattamente cristallino, diciamo. Del resto non si spiegherebbe altrimenti come si siano verificate frodi, i cui soldi molto spesso non vengono effettivamente recuperati.
Se non bastasse, è stata introdotta, relativamente all’annualità di contributo per l’anno 2019, la possibilità di posticipare la verifica della regolarità previdenziale e fiscale delle imprese beneficiarie al momento del saldo, anziché al momento del pagamento della rata di anticipo, consentendo alle imprese beneficiarie dei contributi di differire il pagamento dei costi da rendicontare ai fini del rimborso, fino a sessanta giorni dall’incasso del saldo del contributo. Chi e come si verifica che una volta ottenuti i contributi le imprese editoriali effettivamente provvedano a saldare non è dato di sapere.
Insomma, se il principio di tutelare il pluralismo dell’informazione non può che essere condivisibile, è invece la sua concreta applicazione, con tutte le “sbavature” che abbiamo riepilogato, a fare acqua da tutte le parti. Non a caso in questi anni alcuni dei quotidiani che ricevono i contributi più sostanziosi sono stati coinvolti in “giravolte” in cui prima gli sono stati sospesi, o perlomeno congelati, i finanziamenti, salvo poi ridarglieli senza colpo ferire.
CONTRIBUTI INDIRETTI
È in quest’area che si registrano i maggiori incrementi. Si passa infatti dai 91 milioni del 2019 ai 290 milioni del 2021. Più del triplo.
Erogazioni concesse con una molteplicità di forme di sostegno: agevolazioni fiscali, riduzioni tariffarie, rimborsi spese e crediti di imposta, che ancora una volta lasciano più che perplessi in molti casi.
Una delle misure che lascia più sconcertati è quella relativa alla forfettizzazione al 95% delle rese, invece che all’80% come era in precedenza. Per tale agevolazione sono stati allocati 13 milioni di euro nel 2020 e 20 milioni nel 2021. Come abbiamo avuto modo di scrivere quando tale norma era in via di applicazione, in buona sostanza si stanno dando milioni di euro agli editori per assorbire ulteriormente il costo delle rese. Si tratta nella pratica di incentivare ulteriormente la disefficienza della filiera editoriale, invece di perseguire con urgenza il suo efficentamento e la sua modernizzazione, attraverso l’informatizzazione, come abbiamo detto a più riprese.
Più in generale lascia più che perplessi tutto l’impianto generale. Infatti, mentre da ormai un decennio si discute, e si sperimenta, la sostenibilità, o meno, della transizione al digitale, di fatto gran parte delle agevolazioni concesse è per il prodotto tradizionale cartaceo. Non solo con l’aumento della quota di forfettizzazione delle rese, come abbiamo visto, ma anche con il credito d’imposta degli investimenti pubblicitari incrementali, con soggetti che richiedono tale agevolazione per pochi spiccioli, per qualche decina di euro, arrivando però in totale, nel 2021 a 90 milioni di euro.
Poco meno di un terzo del totale dei contributi indiretti di quest’anno per una misura fatta da chi evidentemente non conosce le logiche di investimento di aziende/brand, come ebbe modo di sottolineare, giustamente Giovanna Maggioni, all’epoca Direttore Generale dell’Upa, durante l’avvio degli Stati Generali dell’Editoria, subdolamente archiviati come un male finalmente estirpato.
Altri 50 milioni, nel 2021, sono stati dati sotto forma di agevolazione delle tariffe postali. E altri 30 al credito d’imposta per l’acquisto della carta. A questi si aggiungono altri 60 milioni per la distribuzione delle testate finanziando così coloro che sono “il cancro” dell’editoria.
Poco o nulla invece alle edicole, nonostante queste direttamente e indirettamente, attraverso i ricavi generati dalla vendita di copie e di pubblicità, pesino ancora oggi più dell’80% dei ricavi dei publisher di quotidiani, e in barba al fatto che durante il primo lockdown siano state dichiarate un “servizio essenziale” e siano rimaste aperte contrariamente a molti altri esercizi commerciali.
Comunque sia, dopo che il predecessore di Moles, Martella, è andato parlando di “editoria 5.0” per tutta la durata del suo mandato, senza concludere nulla al riguardo, il credito d’imposta per i servizi digitali è stato di soli 8 milioni nel 2020 e di 10 quest’anno. Il futuro può attendere. Pare davvero.
Tutto questo anche se la maggioranza degli italiani, stando ai risultati dell’edizione 2021 del “Digital News Report”, il rapporto annuale più atteso dagli addetti ai lavori, e più completo, sullo stato dell’informazione, si dichiara contraria ai finanziamenti all’editoria. Difficile dargli torto visto come vengono mal spesi tali contributi. Non ci siamo. Non ci siamo proprio.
Un esempio di buone pratiche, che potrebbe essere da seguire, è quello della Francia, che proprio in questi giorni ha modificato le condizioni per l’accesso agli aiuti alla stampa implementando alcune restrizioni.
In Francia, dove gli aiuti all’editoria sono consistenti, tra le diverse tipologie di contributi esiste anche uno specifico “fondo di sostegno per l’emergenza è l’innovazione nella stampa”. Area di contributi che a sua volta è composta da un supporto specifico per “le testate emergenti” che tra le condizioni per avere accesso ai fondi, oltre al fatto che la società editoriale deve essere costituita da meno di tre anni, ha quella di promuovere l’accesso alla conoscenza e alla formazione, la diffusione del pensiero, il dibattito delle idee, la cultura generale e la ricerca scientifica, e i criteri si basano sulla bontà, o meno, del business plan, del progetto editoriale nel suo complesso e le risorse umane assegnate al progetto e le previsioni di assunzione.
Anche gli aiuti alla distribuzione si basano su criteri qualitativi, come ad esempio che le vendite conteggiate ai fini degli aiuti siano solamente quelle fatte al cliente finale – l’equivalente di quelle che da noi ADS chiama “vendite individuali“.
Ed ancora, sempre a titolo esemplificativo, gli aiuti diretti sono condizionati al fatto che le testate che ricevono contributi, fatto 100 i loro ricavi, non superino il 25% di questi dalla pubblicità. Condizione che guarda caso avevamo suggerito più volte, ipotizzando un tetto del 30%.
Insomma, qui non si tratta di guerre di quartiere e/o di prese di posizione ideologiche. Ribadiamo di essere favorevoli concettualmente a forme di sostegno all’editoria in nome del principio di pluralismo ma che certamente non lo siamo nei termini nei quali attualmente i finanziamenti vengono erogati. L’idea di difesa della democrazia anche attraverso il sostegno all’informazione è assolutamente sensata. Non lo è quella di sperperare soldi dello Stato, e dunque dei cittadini, per tutelare lo status quo e favorire cattive pratiche, che non sono accettabili.
In conclusione, prima di lasciarvi all’infografica sottostante che fornisce il dettaglio di ciascuna voce dei contributi erogati negli ultimi tre anni, non vi è una visione strategica e organica. Si incentiva la disefficienza, si contribuisce ad alimentare le distorsioni presenti nella filiera distributiva editoriale, e si rischia seriamente di fornire contributi a chi non ne ha diritto. Questa non è “difesa della democrazia” e/o del pluralismo. Questo è sperpero, colpevole e prolungato nel tempo, dei denari pubblici, dei soldi dei contribuenti.