È bastata un’ora circa al Consiglio dei ministri per dare il via libera al Documento di Economia e Finanza, passo essenziale della lunga liturgia (Semestre Europeo) voluta da Bruxelles per controllare e coordinare la finanza pubblica degli Stati membri.
Poche le sorprese, nonostante da domenica tutti i principali quotidiani del Paese scrivano a reti (quasi) unificate, con toni spesso scandalizzati, di Def “congelato”, perché privo della parte programmatica. Cioè dei numeri di finanza pubblica che il governo in carica intende raggiungere come effetto di nuove norme introdotte in corso d’anno. Il ministro Giancarlo Giorgetti si è limitato a pubblicare i dati del quadro tendenziale, cioè quelli che sono il risultato delle norme attualmente approvate, senza nuovi interventi.
Secondo Federico Fubini sul Corriere della Sera domenica scorsa, “rinviare la presentazione del quadro programmatico permette quindi al governo di non rendere noti i sacrifici necessari a governare il debito almeno fino a dopo le elezioni europee di giugno”.
Una lettura strumentale di un fatto invece per nulla rilevante – su cui tuttavia si sono sprecati fiumi di inchiostro per due giorni – per almeno due ordini di motivi.
Il primo è che non aveva alcun senso pubblicare un indirizzo programmatico quando il quadro di finanza pubblica per il 2025 sarà il risultato di un negoziato con la prossima Commissione. La riforma del Patto di Stabilità infatti prevede che i governi negozino con la Commissione una “traiettoria tecnica” definita da due parametri: la crescita della spesa pubblica netta e la variazione dell’avanzo primario strutturale. Su un orizzonte temporale di 4 o 7 anni, ciascun anno avrà un obiettivo e deficit/PIL e debito/PIL saranno ridotti proprio grazie al conseguimento di quegli obiettivi. Che senso aveva pubblicare una parte programmatica quando da qui a poche settimane si dovrà ragionare in un perimetro del tutto nuovo, di cui nemmeno la Commissione conosce i contorni in modo definito?
Il secondo motivo è ancora più strutturale. Ad aprile è molto improbabile che un governo si sbilanci eccessivamente sul quadro di finanza pubblica dell’anno successivo. Infatti tocca sempre alla Nadef a settembre delineare gli obiettivi per l’anno successivo che, dopo poche settimane, vengono dettagliati nel documento programmatico di bilancio inviato a Bruxelles e nel disegno di legge inviato alle Camere per la sessione di bilancio. Ad aprile nessuno scopre le carte. Intendiamoci, quasi sempre in passato i governi hanno pubblicato una parte programmatica anche ad aprile. Ma quei dati avevano senso soprattutto in occasione di manovre correttive per l’anno in corso, la parte programmatica è sempre stata un pro-forma, in attesa di settembre.
Chiarito questo non banale aspetto procedurale, veniamo ai dati resi noti da Giorgetti relativi al quadro tendenziale. La crescita del PIL nel 2024 è prevista al +1%, contro il +1,2% dell’ultima Nadef e già questa è una buona notizia, perché tutti i principali centri di previsione non vanno oltre lo 0,8% (Bankitalia +0,6%).
Il deficit/PIL per il 2024 è confermato al 4,3% ed è previsto raggiungere il 3% solo nel 2026.
Tutto sommato contenuto, rispetto alla Nadef, l’effetto sul debito pubblico della spesa del Superbonus. È vero che il rapporto debito/PIL passa dal 137,3% del 2023, al 137,8%, 138,9%, 139,8%, rispettivamente per il 2024,2025 e 2026.
Ma va notato che a settembre scorso il debito/PIL per il 2026 era stato pianificato al 139,6%. Quasi allo stesso livello della nuova previsione, nonostante ci siano di mezzo decine di miliardi di Superbonus spuntati come funghi negli ultimi sei mesi.
Inoltre, considerati i precedenti errori di previsione, è sperabile che questa volta i tecnici del Mef abbiano affinato le stime, abbondando in prudenza.
L’unico elemento programmatico svelato da Giorgetti è quello relativo alla volontà di proseguire anche nel 2025 con il taglio del cuneo fiscale: “la decontribuzione che scade nel 2024, intendiamo assolutamente replicarla nel 2025, questo è il vero obiettivo che ci poniamo quando andremo a definire il Programma strutturale”, ha dichiarato.
Altro elemento di rilievo è quello – ormai d’attualità – della proroga del termine per il completamento degli investimenti del PNRR, previsto per il primo semestre 2026. Giorgetti ha dichiarato che “ho già chiesto in Europa una proroga: mi hanno sconsigliato, quindi io insisto. Non so se vi siete resi conto che dopo l’approvazione del Pnrr è scoppiata una guerra in Europa. A Bruxelles non vorrei che si facesse come a Roma, che la proroga si decide il giorno prima», sarebbe invece preferibile decidere con largo anticipo anche «per allentare la tensione e le pressioni sui prezzi». «Io faccio il ministro dell’Economia, Gentiloni fa il commissario, Lagarde fa il governatore della banca centrale: posso esprimere il mio auspicio, è una bestemmia? Tra colleghi ministri tutti quanti ci diciamo questo, la commissione rimane ferma, chissà la prossima forse valuterà diversamente».
I nostri lettori leggono dell’impossibilità di eseguire quel piano (guerra o no) da circa 3 anni. Finalmente anche Giorgetti ha fatto i conti con la realtà.