Caro direttore,
Il via libera del CIPESS alla costruzione del ponte sullo Stretto di Messina ha reso “Ponte sì, ponte no” il tormentone dell’estate italiana. Dai social agli aperitivi in spiaggia, dalla stampa ai programmi di infotainment, tutti sentono l’obbligo di smettere gli abiti di CT della Nazionale o di virologi per indossare quelli di ingegneri civili o di econometristi. E giù a discettare di costi, faglie, ritorni economici, priorità per la Sicilia e via attingendo al proprio guru di riferimento. Chi sono io per sottrarmi a questo dibattito?
Ebbene, credo che la questione sia mal posta. Il ponte non va costruito per ridurre l’impatto ambientale del traffico stradale o per superare i limiti dell’insularità – in fondo, come graffiò con sarcasmo livornese Marco Taradash, intervenendo sul tema qualche decennio addietro, «la Calabria è unita al continente da milioni di anni, senza averne avuto vantaggio alcuno». Non va costruito perché i fondi europei sono vincolati a questo progetto e non possono essere indirizzati altrove, secondo il vecchio vizio della politica italiana. Non va costruito perché la spesa di quest’opera ciclopica è venti volte inferiore al costo consuntivato per il superbonus 110% del governo Conte. E non va costruito neppure per risolvere il contenzioso per il contratto cancellato dal governo Monti, incapace di distinguere tra spesa e investimento.
Nulla di tutto questo. Il ponte va costruito per dimostrare che l’Italia è ancora in grado di pensare in grande e di realizzarlo, come ogni altro paese che voglia giocare in serie A.
Il ponte serve a combattere – e, per quanto possibile, a sconfiggere – la cultura del pensare in piccolo, degli interventi a pioggia, del non decidere, dell’attendere fino all’ultimo, dell’accodarsi alle decisioni altrui, della paura di sbagliare. Serve, in una parola, a dare un segno che il paese – nel senso più ampio possibile – non è rassegnato al declino, ma ha ancora le risorse intellettuali per indirizzare il proprio futuro.
Il Sì al ponte serve a un’Italia che ha perso il gusto delle scelte forti, preferendo farsele imporre dai vincoli esterni, con annesso mugugno. Serve a un’Italia ripiegata su quote di partecipazione a progetti europei nei quali non ha la capacità di imporre le proprie priorità. Serve a un’Italia che somiglia sempre più all’asino di Buridano, morto di fame per non saper scegliere tra paglia e fieno.
Il sì al ponte serve come antidoto alla cultura del No a prescindere, magari travestito da dati à la carte, all’alibi del benaltrismo, alla demagogia populista. Da romano ricordo il lungo fermo alla Metro C imposto dall’amministrazione Raggi, tradottosi in un ritardo di sette anni su un cantiere di dieci anni circa. Ricordo il “no Olimpiadi”, motivato con presunti costi non pagati di quelle del 1960, non confermato dai dati. Da oggi in poi, vorrei avere un successo simbolico, una sfida vinta, un’opera che faccia scuola. Un mito positivo, insomma.
Certo, poi trasporterà anche auto, camion e treni tra l’isola e il continente, innescando una serie di ricadute positive e qualche nuova sfida (potrebbe, per esempio, diminuire il traffico aereo su Catania). Ma, secondo me, non è questo che lo rende indispensabile a un’Italia che non vuole rassegnarsi al declino e, al contempo, stenta a trovare la sua strada.
Perché, in ultima analisi, puntare in alto senza riuscire è meno grave che puntare in basso e riuscire.
Cordiali saluti,
Gregory Alegi