La finanza islamica, basata su principi di equità, condivisione del rischio e responsabilità sociale, è cresciuta fino a diventare un’industria mondiale con un patrimonio che si prevede supererà i 6.600 miliardi di dollari a livello globale entro pochi anni.
Sebbene estenderla ad altri Paesi non sia un progetto facilmente attuabile, le sue caratteristiche sono in linea con gli obiettivi climatici e le iniziative di sostenibilità che il mondo dice di voler affrontare.
LA FINANZA ISLAMICA DELLE ORIGINI
La finanza islamica, come ricorda la biblioteca digitale di riviste accademiche Jstor, affonda le sue radici nel primo Islam e più precisamente nel VII secolo d.C., all’epoca del Profeta Maometto.
Il Corano e gli Hadith (detti e azioni del Profeta) hanno gettato le basi del sistema finanziario, con divieti fondamentali come il riba (interesse) e il gharar (eccessiva incertezza) che impediscono lo sfruttamento e garantiscono la giustizia finanziaria per tutte le parti coinvolte.
Per secoli, il commercio e gli scambi nel mondo musulmano hanno operato secondo questi principi, tuttavia, con l’avvento del colonialismo e la diffusione delle pratiche bancarie occidentali, molte di quelle islamiche sono state messe da parte.
DA NICCHIA A INDUSTRIA GLOBALE
La rinascita della finanza islamica moderna è iniziata a metà del XX secolo quando nel 1963 è stata fondata in Egitto la prima banca islamica moderna, a cui sono seguite altre istituzioni in tutto il mondo musulmano.
Da allora, osservano gli studiosi, la finanza islamica è cresciuta fino a diventare un’industria globale, che comprende compagnie di assicurazione, banche e fondi di investimento, con un patrimonio di 4.500 miliardi di dollari a livello globale, che si prevede supererà i 6.600 miliardi di dollari entro il 2027.
UNA FINANZA GREEN
Oltre alla sua potenziale crescita, è da notare che i suoi principi sono esattamente in linea con gli obiettivi climatici e le iniziative di sostenibilità che l’economia mondiale sostiene di voler raggiungere e supportare.
Secondo la finanza islamica infatti tutti gli investimenti devono aderire a principi di responsabilità sociale ed evitare attività dannose per la società o l’ambiente, come sostenuto dai criteri ambientali, sociali e di governance (ESG) utilizzati dagli investitori di tutto il mondo.
IL CASO DELLE MALDIVE
A tal proposito Jstor porta l’esempio dei sukuk (bond islamici) utilizzati per finanziare progetti verdi, come impianti di energia rinnovabile e infrastrutture ecocompatibili. Queste obbligazioni hanno registrato una crescita significativa soprattutto in Paesi come la Malesia, dove vengono utilizzate per finanziare progetti di sostenibilità ambientale.
Tuttavia, le Maldive rischiano invece di rappresentare il primo caso di default legato alla finanza islamica. Secondo i dati della Banca Mondiale riportati dal Sole 24 Ore, “i debiti pubblici o garantiti dallo stato delle Maldive ammontano a più di 8 miliardi di dollari, il 116% del Pil. Fra i creditori Cina e India, rispettivamente per 1,37 miliardi e 124 milioni di prestiti. Una tranche di questo debito scadeva l’8 ottobre 2024. Per non andare in fallimento le Maldive hanno dovuto rinegoziare con i due creditori i termini del debito stesso. Una parte del debito delle Maldive è rappresentato da sukuk bond, obbligazioni che rispettano la legge islamica, che vieta la distribuzione di interessi”.
E se l’arcipelago non onorasse i sukuk che hanno emesso, spiega Il Sole, andrebbe incontro “a gravi problemi nel finanziamento sui mercati internazionali, finanziamento di cui il paese ha bisogno per acquistare le materie prime e le merci che non produce, avendo solo i flussi di cassa del turismo come introito garantito”.
DEBITI SOSTENIBILI E BASSO RISCHIO DI CRISI
I sostenitori della finanza islamica affermano però che questa, in quanto richiede che le transazioni siano legate ad attività reali e tangibili, “contribuisce a scoraggiare le pratiche speculative che possono portare a crisi economiche, come il crollo finanziario globale del 2008”. Inoltre, “riducono il rischio di pratiche non sostenibili e incoraggiano gli investimenti in settori che contribuiscono allo sviluppo a lungo termine, come le infrastrutture, l’energia e la sanità”.
A questo si aggiunge che il divieto di pagare gli interessi “incoraggia a concentrarsi su contratti basati sull’equità e sulla condivisione del rischio” e, poiché questi contratti “prevedono che entrambe le parti condividano i profitti e i rischi di un’attività, si crea un equilibrio di potere più equo e si riduce la probabilità di accumulare debiti insostenibili”.