La recente rilevazione Istat sul potere d’acquisto dei redditi ha riproposto polemiche e deduzioni come se il problema si riconducesse ai due anni trascorsi e quindi al presente governo.
Il problema dei bassi salari è serio, viene da lontano e non basta dissertare sul recupero o meno della fiammata inflazionistica. Anche nei settori ove l’inflazione è stata assorbita dagli aumenti contrattuali del recente passato e dalle promesse per il prossimo futuro, come i metalmeccanici, il potere d’acquisto non è adeguato a sopportare i nuovi bisogni e (legittimi) desideri.
Tutto parte con il patto Ciampi del 1993. L’inflazione è sconfitta mentre emerge il nodo di una produttività non più recuperabile con le periodiche svalutazioni del cambio. È chiaro già allora che bisogna scambiare salario con produttività ovunque questa si realizza (e così si incentiva). Ovvero in azienda. Eppure si realizza allora una convergenza opportunistica tra le maggiori organizzazioni rappresentative per controllare in termini egualitari gli aumenti dei contratti nazionali senza dare garanzie sul livello aziendale. Ora si è arrivati perfino a detassare una parte dell’aumento piatto dei contratti nazionali mantenendo inagibile la tassazione agevolata dei premi aziendali perché condizionata a improbabili calcoli sulla produttività che solo le grandi aziende possono dimostrare all’Agenzia delle Entrate.
Far crescere produttività e massa salariale significa dare indennità da lavoro aggiuntivo, premi, dividendi, parte degli utili, benefit, prestazioni sociali gratuite. E tassare tutto ciò meno degli aumenti dei contratti nazionali. Anzi, se il contratto ti promette una cifra ma poi, quella stessa o una maggiore, la scambi in azienda con qualche efficienza dovrebbe essere tassata di meno. Così da incoraggiare quelle reciprocità che imprenditori e lavoratori realizzano guardandosi negli occhi. E il conto torna per tutti.






