Dopo la provocatoria mossa di apertura di Trump emerge quale nodo reale il peso della Cina nel commercio e nell’ordine politico globale.
A lungo sottovalutata nella velocità di crescita, l’autocrazia cinese ha potuto avvalersi del libero scambio senza soggiacere alle intense regolazioni delle economie occidentali. La fabbrica del mondo non solo ha prodotto merci competitive con i bassi salari ma si è sottratta anche alle convenzioni internazionali su lavoro, ambiente, brevetti. La recente pandemia ha evidenziato poi la opacità delle sue informazioni inerenti la salute.
L’illusione della fine della storia e l’ideologia del mercato hanno distratto l’Occidente rispetto alle nuove forme di colonialismo nel sud del mondo e alla concentrazione di materie prime e semilavorati in un’area a rischio di chiusura geopolitica. In Europa la vicenda dell’auto elettrica tedesca è stata emblematica. La presunzione di poter occupare agevolmente il mercato cinese, sostenuta dagli obblighi europei di abbandono del motore endotermico, si è risolta con la invasione delle loro vetture a buon mercato.
La Cina protegge sempre più i propri prodotti dalle importazioni e li esporta aggressivamente in Europa a scapito della nostra industria, mentre noi abbiamo perso competitività per i nostri stessi vincoli interni. Per non dire, infine, dei progetti cinesi sulla logistica e su molta portualita’ come nel caso del nostro porto di Trieste.
USA e Cina non possono quindi essere indifferenti agli europei. Il punto di partenza di ogni riassetto globale non può che essere la ritrovata unità dell’Occidente per ragioni economiche, politiche e culturali. A partire dalla richiesta di una base di regole essenziali universalmente accettate e praticate in materia di salute pubblica, lavoro, ambiente e produzione alimentare, spazio, energia nucleare. Sono ben strani i nostri filocinesi, tanto esigenti in patria su questi temi quanto comprensivi con i più temibili concorrenti.