La forte ripresa dell’economia della Cina dopo la fine della politica zero-Covid si accompagna a un singolare paradosso, ossia a un’inflazione molto più bassa di quanto ci si sarebbe aspettati. Ma questo mistero è stato illuminato da un recente articolo dell’Economist che invita a mettere in prospettiva i dati economici e non adottare la lente ristretta del paragone con l’ultimo anno.
Il sorprendente dato sull’inflazione in Cina
L’articolo dell’Economist esordisce ricordando come, quando l’economia Usa sperimentò una robusta ripresa dopo le chiusure da Covid, si accese immediatamente anche il motore dell’inflazione, che a metà del 2021 aveva toccato il 5% rispetto all’anno precedente.
Per contrasto, la più tarda ma repentina riapertura in Cina è giù in atto da diversi mesi, con l’inflazione che però non ha conosciuto alcun balzo in avanti, tanto che l’indice a marzo segnava appena lo 0,7% anno su anno, il dato più basso – rileva il settimanale britannico – di gran parte dei Paesi del mondo.
Eppure la ripartenza dell’economia cinese dopo la turbolenta stagione del Covid è stata descritta anche dallo stesso Economist come l’evento economico più importante dell’anno. Perché dunque un effetto così risibile sui prezzi?
Le cifre ufficiali mentono?
Il sospetto di alcuni analisti è che le statistiche ufficiali cinesi siano falsificate, e che dunque la ripresa economica cinese non sia così robusta di come viene ritratta dal governo.
Gli analisti di China Beige Book, che monitorano il quadro economico cinese basandosi su fonti indipendenti, si dicono perplessi di fronte ai dati ufficiali che mostrano come le vendite al dettaglio a marzo siano schizzate al 10,6% rispetto all’anno precedente.
Guardare al confronto al di là dell’ultimo anno
Ma c’è un altro elemento da tenere in considerazione, ed è che i dati sulla crescita economica cinese appaiono forti solo se raffrontati al quadro del 2022, quando l’economia era molto debole. Se si tiene invece come termine di paragone il 2021, ecco che la crescita delle vendite al dettaglio appare ancorata ad un più tenue e ragionevole tasso annuo del 3.3%.
Quel che è vero per le vendite al dettaglio, scrive l’Economist, è vero anche per l’economia più in generale. È giusto cioè sottolineare che la ripresa cinese appare intensa rispetto al picco negativo dell’anno scorso, ma non lo è se comparata alla fase prepandemica.
La Cina d’altra parte ha sofferto delle restrizioni più di quanto sia capitato ad altre economie che hanno subito i lockdown. Il Paese pertanto dovrà lavorare molto più intensamente per recuperare le sue piene capacità.
Un indicatore da prendere in considerazione a tal proposito riguarda il mercato immobiliare: sebbene le vendite quest’anno appaiano più dinamiche dell’anno scorso, esse si mostrano più deboli di quant’erano nel 2021 e soprattutto nel 2020.Anche gli affitti stanno conoscendo un trend discendente, contribuendo così alla bassa inflazione.
Il fattore energia
A fare la differenza è anche il calo vistoso nei prezzi dei carburanti per i veicoli. Inizialmente si pensava che le riaperture in Cina avrebbero provocato un sensibile balzo all’insù dei prezzi globali dell’energia e dunque dell’inflazione.
È accaduto invece che le economie Usa ed europea hanno lottato per non cadere in recessione, abbattendo i costi globali dell’energia. E mentre il resto del mondo ingaggiava una battaglia serrata contro l’inflazione, determinando un ulteriore calo dei prezzi dell’energia, la stessa inflazione in Cina si manteneva debole.
Il fattore ristori
Un altro elemento che ha differenziato l’andamento dell’economia cinese da quello degli altri Paesi ha a che fare con quelli che noi italiani chiameremmo ristori.
I generosi assegni elargiti ai cittadini dal governo americano durante la pandemia hanno contribuito al grande esodo dei lavoratori dai loro posti, incoraggiandoli a stare a casa o a ridurre le ore di lavoro.
Ma questi privilegi sono stati del tutto assenti in Cina, dove il Partito, sotto il regime zero-Covid, ha fornito ben pochi aiuti diretti alle famiglie. Ecco perciò, come sottolineano gli economisti di Morgan Stanley, l’offerta di lavoro in Cina non è stata “distorta da eccessivi trasferimenti”.
Mentre le riaperture in Cina hanno rafforzato la domanda di beni e servizi, hanno anche migliorato la capacità del Paese di offrirli. Il venir meno di tutte le restrizioni ha rimosso i colli di bottiglia di cui pativano le catene di produzione contribuendo a una loro rinnovata efficacia, ben dimostrata dalla crescita dell’export del 15% anno su anno registrata a marzo.
Tutta una questione psicologica?
Se tutti i rilievi fatti dall’Economist sono veritieri, è vero anche che c’è un altro fattore che potrebbe spiegare la crescita cinese senza inflazione; la psicologia.
Le aziende infatti prestano molta attenzione quando si tratta di alzare i prezzi, considerandola una scelta di ultima istanza. Se esse non sono sicure che persista una forte domanda di beni, saranno riluttanti ad effettuare ricarichi sui prezzi.