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Così la Cina scassa le casse all’America latina

Tutte le dichiarazioni e gli accordi all'ultimo vertice della Cina con la Comunità degli Stati Latinoamericani. L'articolo di Livio Zanotti, autore de Ildiavolononmuoremai.

Se Donald Trump minaccia e impone (dalla deportazione di emigrati, al canale di Panama e ai dazi), Xi Jinping accoglie ed offre (dalle infrastrutture energetiche, ai porti marittimi e ai crediti a lungo termine). Sempre di affari si tratta. Ma lo stile si presenta uno l’opposto dell’altro. Raccontano che giorni addietro, a Pechino per l’annuale summit della Cina con la Comunità degli Stati Latinoamericani (CELAC), Xi, il presidente-dominus che conduce con un in certo personalismo governo e partito della gigantesca potenza asiatica (non propriamente noto per la sua estroversione), ha elargito calorose effusioni non solo al presidente brasiliano Lula, che già conosceva bene; ma anche al cileno Gabriel Boric e al capo di stato colombiano, Gustavo Petro, con i quali c’era assai scarsa familiarità. Non minor cordialità con tutti i rappresentanti dei 33 paesi latinoamericani intervenuti al Forum, hanno mostrato il ministro degli Esteri, Wang Yi, e i suoi maggiori funzionari. Sono stati sottoscritti molte decine di accordi d’un Piano d’Azione Congiunto per una cooperazione triennale 2025-27, che comprende dalle nuove tecnologie alle fonti energetiche, alle infrastrutture, ai commerci. E una linea di credito rifinanziata con 9 miliardi di dollari.

I cinesi hanno smesso la tristezza, non piangono più. Non lo fanno già da tempo. Ma io ne ho ricordi indimenticabili che marcano epoche diverse. Le lagrime dei 64 funzionari della sede diplomatica di Berna (allora l’unica in un’Europa, che ad eccezione della Svizzera non riconosceva la Repubblica Popolare di Cina), schierati in divisa grigia su tre file come un drappello militare a destra della bara del celebre giornalista statunitense Edgar Snow, in una casa funeraria di Ginevra, nel febbraio 1972. Di fronte a loro, sul lato opposto, la seconda moglie di Snow, Louise Wheeler, con i due figli ventenni. Tra gli uni e gli altri, la sociologa newyorkese Carol Pinaw, il filosofo e pedagogo brasiliano Paulo Freyre, il corrispondente dall’Europa dell’allora più prestigioso quotidiano del Brasile, Jornal do Brasil, Francisco Araujo Netto, e il sottoscritto. Era l’estremo omaggio all’unico testimone occidentale della Lunga Marcia, dai massacri di comunisti compiuti dai nazionalisti di Chiang Kay-schek nella Shanghai di fine anni Venti alle grotte nel nord dello Yunan (“Red Star Over China”). Con storiche interviste a Mao Tze- Dung e Chu En-Lai, che valsero a Snow la fama mondiale ma anche persecutori ostracismi (Kissinger era ancora lontano dall’imporsi al maccarthysmo).

L’esemplare compostezza anche emotiva della vedova e dei figli, diritti e immobili, lo sguardo fisso ma asciutto, contrastava vistosamente con il pianto ininterrotto, in alcuni quasi convulso, dei diplomatici di Pechino. Nel silenzio dell’ampia sala, interrotto solo dalle parole commemorative di un fratello di Snow, brevi e misurate, osservavo alternativamente gli uni e gli altri, rivolgendomi ogni tanto con espressione interrogativa ai miei vicini e per capire se fossero sorpresi quanto me. Soprattutto a Freyre. Era infatti l’unico tra noi occidentali, a parte la famiglia Snow, che sapevo avere qualche conoscenza delle culture cinesi. Ma il suo volto nordestino era imperscrutabile. Solo a cerimonia conclusa, spiegò che così come del resto anche tra noi europei e americani, nella mistica cinese tanto il pianto quanto il sorriso hanno una funzione catartica, sia a livello individuale sia collettivamente. Ma taoismo e confucianesimo ne raccomandano l’espressione soprattutto in pubblico, affinché abbia una funzione sociale, di partecipazione e integrazione. Tant’è che gli ideogrammi che li esprimono hanno entrambi i segni della natura terrena e di quella celeste.

Quando allo scadere degli anni Ottanta, per conto della RAI-TV ebbi l’opportunità di passare da Hong Kong nello Shenzhen, allora una delle prime o forse la prima “zona speciale mista” in assoluto di una Cina che avviava le grandi privatizzazioni economiche, fui colpito dai sorrisi che le accompagnavano. Sorrisi femminili sui giganteschi manifesti che pubblicizzavano i primi consumi individuali di massa e gli investimenti che tre decenni dopo sono diventati le imprese leaders delle nuove tecnologie. Una Silicon Valley cinese in quello che durante qualche secolo era stato un paesone-porto che viveva della pesca d’altura. Ma sorridevano volentieri anche le persone che incrociavamo in strada o andavamo a interrogare negli uffici pubblici, la maggior parte delle quali giunte da poco in città da altre province. A cominciare dalla nostra interprete. Con ogni probabilità, oggi, non tutti sorridono, in un paese che già molti anni addietro la vedova di Edgar Snow ha accusato di non rispettare i diritti umani. E in cui l’immenso e prepotente sviluppo ha permesso la nascita di enormi ricchezze personali, ma continua a riservare un men che modesto reddito medio ai cittadini comuni. Ai latinoamericani, però, adesso offre prospettive commerciali senza precedenti.

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