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Euro

Next Generation Eu: numeri, obiettivi e tappe

Il pacchetto fiscale Next Generation Eu dell’Ue rappresenta un punto di svolta per l’assetto politico ed economico dell'Eurozona. L'analisi di Andrea Delitala, head of euro multi asset di Pictet Asset Management

Grexit, Brexit, Italexit e persino Germanexit.

Gli ultimi anni per il continente europeo sono stati caratterizzati dalla dominanza delle forze centripete su quelle aggreganti. La diffusione di movimenti politici di stampo populistico e anti-europeista, che spesso cavalcavano il malumore dei cittadini dei vari Stati membri nei confronti dell’Ue per guadagnare consenso, ha portato più volte la già fragile unione tra i Paesi del Vecchio Continente molto vicina al punto di rottura definitivo.

Eppure, come è già successo spesso in passato nella storia dell’Unione, in reazione ad una situazione estremamente complicata è stata trovata la volontà politica ed economica di fare un determinante passo in avanti verso una maggiore integrazione, a dimostrazione di come anche le crisi più acute possano portare a cruciali punti di svolta in positivo.

Frenata dalla congenita lentezza dei meccanismi comunitari, la reazione iniziale a sostegno delle economie duramente colpite dalla pandemia era stata quantomeno timida: l’intervento fiscale era stato di fatto interamente delegato ai singoli Paesi e alle loro possibilità di spesa, temporaneamente affrancati dai vincoli di bilancio imposti dal Patto di Stabilità. E se le misure di emergenza di Sure, Bei e Mes, ratificate ad aprile, avevano già dimostrato l’intenzione di fare di più, è solo a fine maggio con l’accordo tra Merkel e Macron sul Recovery Fund che il vero passo in avanti è stato compiuto. Un passo reso ufficiale dall’accordo raggiunto nella notte di martedì 21 luglio tra i 27 leader europei, dopo serrate negoziazioni andate avanti per oltre 4 giorni.

Quella del pacchetto fiscale Next Generation EU non è la sola notizia positiva per l’Europa. I dati macroeconomici, infatti, continuano a mostrare un trend di deciso recupero: per il momento, lo scenario a V sembra quindi proseguire seguendo il percorso previsto, anche con qualche sorpresa in positivo negli indicatori economici. In Germania, l’attività dei servizi, il settore più pesantemente colpito dalla pandemia, è tornata addirittura al di sopra dei livelli pre-Covid e una dinamica simile si riscontra anche nelle altre economie della regione.

In tal senso, è risultata determinante la rigidità con cui i Paesi europei hanno adottato le misure di distanziamento sociale nel tentativo di contenere i contagi. Osservando quanto sta succedendo negli Usa, dove la gestione del virus è stata sinora disomogenea e alquanto inefficace, appare evidente come un approccio più morbido presenti delle controindicazioni pericolose: se da un lato, infatti, evitando il blocco totale dell’attività si riduce la profondità della recessione economica, dall’altro in questo modo la si prolunga per un tempo indefinito, con danni strutturali all’economia potenzialmente maggiori.

Ma tornando all’accordo raggiunto in settimana sul Recovery Fund, questo, per quanto in parte modificativo rispetto alla proposta originale, rappresenta una duplice rivoluzione epocale per la struttura politica ed economica dell’Ue.

In primo luogo, sdogana l’utilizzo della politica fiscale comunitaria per fini congiunturali, volta quindi a rispondere al calo della domanda aggregata, un’ipotesi sempre vanificata in passato dall’opposizione della Germania che attribuiva alle politiche centrali un carattere esclusivamente strutturale. La stessa Germania che, nell’intesa raggiunta con la Francia a maggio, è diventata uno dei principali sponsor del nuovo corso dell’Unione.

In secondo luogo, il pacchetto Next Generation EU vede per la prima volta la creazione di debito europeo: tale politica fiscale congiunturale, infatti, viene finanziata a debito, una scelta che porterà velocemente l’Ue ad essere uno dei principali emittenti obbligazionari al mondo, con un fabbisogno stimato per i prossimi anni di circa 1’000 miliardi di euro (tale importo comprende anche le somme potenzialmente destinate al Sure, il programma contro la disoccupazione, a cui finora i singoli Stati non hanno ancora fatto ricorso).

Questi due elementi, mai messi in discussione nel corso delle prolungate negoziazioni, rappresentano dei veri e propri punti di svolta per l’assetto comunitario, in grado di eclissare le modifiche al pacchetto di stimoli volute dai Paesi frugali.

Il nuovo accordo, in particolare, ha svuotato le politiche comunitarie atte a creare beni pubblici europei, andando ad impinguare per compenso i trasferimenti agli Stati membri: le risorse destinate alla Recovery and Resilience Facility sono infatti aumentate da €560 miliardi a €672,5 miliardi, con gran parte dell’importo aggiuntivo rappresentato da prestiti a basso costo (i €672,5 miliardi sono così ripartiti secondo il nuovo schema: €360 miliardi di prestiti e €312,5 miliardi di sovvenzioni; nel complesso, per effetto del depotenziamento delle politiche pubbliche comunitarie, sui €750 miliardi totali la quota di sovvenzioni è scesa da €500 miliardi a €390 miliardi).

Nella sua forma attuale, quindi, il piano ha perso in parte il carattere di accordo comunitario, per rientrare nello schema più tradizionale di un accordo intergovernativo, basato sul trasferimento di risorse agli Stati membri, ma restano di assoluta predominanza le due rivoluzioni strutturali suesposte.

Con questo pacchetto, pari al 5% del Pil della regione, l’Europa si pone in vetta al mondo in termini di stimoli fiscali adottati per sostenere l’economia: considerando anche quanto fatto dai singoli Paese, si arriva infatti ad un poderoso 14% del PIL, superiore anche a quanto fatto sinora sull’altra sponda dell’Atlantico dagli Stati Uniti (tra il 12% e il 13% del Pil).

Tra i principali beneficiari di questo stimolo massiccio c’è il nostro Paese: l’Italia riceverà risorse per circa €82 miliardi, che dovrà ripagare contribuendo pro-quota al bilancio comunitario a partire dal 2028 e per i successivi 30 anni fino al 2057, quindi con una lunghissima dilazione. Tale contributo, stabilito sulla base della quota del Pil della regione ascrivibile all’Italia, sarà pari a circa €52 miliardi, comportando quindi trasferimenti netti per €30 miliardi nell’arco di 3 anni, tra il 2021 e il 2023, pari circa allo 0,6% annuo. Trasferimenti che potrebbero aumentare ulteriormente qualora parte del pacchetto fiscale venisse finanziato tramite entrate proprie dell’UE, sotto forma di tasse legate ai beni ambientali e rivolte ai colossi digitali statunitensi e cinesi (“digital tax”), anche questa un’eventualità che darebbe il via ad un nuovo corso nelle finanze comunitarie.

L’accordo è stato raggiunto, ora occorre attuarlo. Il percorso istituzionale è ancora alquanto lungo: in autunno è prevista l’approvazione da parte dei Parlamenti nazionali degli Stati membri, che nel frattempo dovranno predisporre e presentare i loro piani di riforma. Si attenderà poi il parere definitivo da parte della Commissione, in una serie di passaggi che farà slittare l’erogazione effettiva dei fondi al 2021, con la possibilità però di usare tali risorse anche per coprire spese sostenute tra febbraio e dicembre di quest’anno e quindi per finanziare il deficit del 2020 (il 70% delle risorse complessive verrà erogato tra il 2021 e il 2022).

Il percorso resta, quindi, ancora alquanto lungo, ma le basi che sono state poste lasciano presagire un futuro nuovo per l’Europa, votato ad una sempre maggiore integrazione, uno scenario inimmaginabile fino a pochi mesi fa.

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