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Quota 100

Che cosa (non) si è detto agli Stati Generali sulla natalità

Agli Stati Generali sulla natalità si è osservato l’albero e non la foresta, si è denunciato un problema senza valutarne le sinergie (negative) con un altro altrettanto serio: l’invecchiamento della popolazione. L'analisi di Giuliano Cazzola

 

E così si sono svolti gli Stati Generali sulla natalità, dove il presidente Draghi ha potuto esporre i programmi del governo per ripopolare la fauna italica (l’assegno unico universale e un piano per gli asili nido) riscuotendo persino il plauso di papa Francesco.

Come al solito, anche in questa circostanza, si è osservato l’albero e non la foresta; si è denunciato un problema senza valutarne le sinergie (negative) con un altro altrettanto serio: l’invecchiamento della popolazione. Spieghiamoci.

E’ sicuramente positivo che le persone vivano più a lungo e possibilmente in buona salute, ma se crollano le nascite si alza l’età media e soprattutto si va verso un assetto della popolazione che potrebbe essere rappresentato dalla descrizione di un gioco circense: un elefante che si regge in piedi su di uno sgabello con l’appoggio di una sola gamba.

L’altro aspetto da considerare è quello del tempo: non si cambiano in breve stili di vita che si sono uniformati alla prassi della denatalità; e – ammesso e non concesso che si inverta il ciclo – occorrerebbero parecchi anni per riequilibrare i saldi negativi.

Nel frattempo il Paese dovrebbe scontare un lungo periodo in cui le coorti subentranti nella scuola, nel mercato del lavoro, nella vita civile, sarebbero in numero inferiore di quelle uscenti.

Rispetto ai dati attuali (che non muteranno sostanzialmente per gli effetti della pandemia), a metà del secolo gli italiani con meno di 65 anni diminuiranno di 6,5 milioni, quelli in età superiore cresceranno di 8,2 milioni ( gli ultranovantenni di 1,7 milioni di unità). Tutto ciò inciderà su di una struttura della popolazione che già oggi è profondamente modificata.

Negli anni ’70 nessuno avrebbe mai ipotizzato che l’Italia (la nazione che nel secolo precedente aveva sparso per il pianeta 26 milioni di esseri umani) sarebbe diventata una comunità multietnica (sono più o meno 5 milioni gli stranieri regolari residenti, di cui più di 2 milioni sono inseriti nel mercato del lavoro).

Nel 1974, quando erano in corso le celebrazioni dell’anno mondiale della popolazione, sembrava impossibile che, nell’arco di qualche decennio, si sarebbe affacciata la prospettiva della crescita zero. In quell’anno vi furono circa 900mila bambini nati vivi.

Nel 2010, sono stati 550mila (grazie anche al contributo degli stranieri residenti). Nel 2020, solo 404mila, il dato più basso nella storia del Paese. Ma si presume che, quest’anno, le nascite saranno ancora meno. D’altra parte, già dal 1971 al 2010 il numero degli anziani (65 e più anni) era raddoppiato (da 6 a 12 milioni), era quadruplicato quello dei vecchi (85 e più anni) passando da 350mila a 1,6 milioni. Si era rarefatto il numero dei giovani(da 0 a 19 anni). Da 17 a 11 milioni, nonostante che la popolazione nel suo complesso fosse aumentata di 6 milioni (al netto dell’apporto della componente straniera che non ha tardato molto ad adeguarsi alle attitudini riproduttive degli italiani).

Negli ultimi 20 anni i giovani italiani fino ai 29 anni si sono quasi dimezzati: da poco meno di 30 milioni a poco più della metà. Per quanto possa sembrare paradossale non è crollato solo il numero delle nascite, ma anche quello delle Interruzioni volontarie di gravidanza.

In totale nel 2018 sono state notificate 76.328 IVG, confermando il continuo trend in diminuzione del fenomeno (-5,5% rispetto al 2017) a partire dal 1983. Da alcuni anni viene notificato un totale di IVG inferiore a 100mila casi; il numero delle IVG è più che dimezzato rispetto ai 234.801 casi del 1983, anno in cui si è riscontrato il valore più alto in Italia.

L’idea per cui la denatalità sia la conseguenza del disagio economico e sociale dei giovani è fondata, ma non risolve il problema. Si sta andando verso limiti naturali difficilmente riducibili sia pure attraverso la scoperta e l’uso di più efficaci tecniche riproduttive: il periodo di fecondità della donna, ad esempio, convenzionalmente fissato tra 15 e 49 anni.

In questa fascia di popolazione, le donne italiane – qui entra in campo l’Istat – sono sempre meno numerose: da un lato, le cosiddette baby-boomers (ovvero le donne nate tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta) stanno uscendo dalla fase riproduttiva (o si stanno avviando a concluderla); dall’altro, le generazioni più giovani sono sempre meno consistenti. Queste ultime scontano, infatti, l’effetto del cosiddetto baby-bust, ovvero la fase di forte calo della fecondità del ventennio 1976-1995, che ha portato al minimo storico di 1,19 figli per donna nel 1995. Al primo gennaio 2019 le donne residenti in Italia tra 15 e 29 anni sono poco più della metà di quelle tra 30 e 49 anni. Rispetto al 2008 le donne tra i 15 e i 49 anni sono oltre un milione in meno. Un minore numero di donne in età feconda (anche in una teorica ipotesi di fecondità costante) comporta, in assenza di variazioni, meno nascite. Infine, diciamoci la verità. Senza far torto all’esigenza di nuovi diritti (ma di ‘’dirittismo’’ una società può anche morire) è in atto un processo che – nei fatti, nei modelli, nella campagne politiche – tende a togliere valore – per non dire di peggio in considerazione di quanto accade in altri Paesi, alla funzione riproduttiva della famiglia naturale.

All’università i docenti di diritto costituzionale comparato ci spiegavano che al Parlamento inglese era consentito di tutto, tranne che trasformare l’uomo in donna e viceversa. Ora pare che ognuno possa decidere da sé.

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