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Green Pass Confindustria

Che cosa combina la Confindustria di Boccia con Di Maio e Salvini? L’analisi del prof. Berta

I rapporti fra la Confindustria presieduta da Vincenzo Boccia e il governo M5s-Lega analizzati da Giuseppe Berta, storico dell'economia

Pubblichiamo qui di seguito la terza parte di un estratto dell’articolo che Giuseppe Berta, che insegna storia economica alla Bocconi, ha scritto per l’Annuario del lavoro 2018 sulla politica di Confindustria.

Il volume, che racconta e commenta quanto accaduto nel corso dell’anno nel mondo del lavoro, è in corso di preparazione da parte del giornale web Il Diario del Lavoro e uscirà solo a metà dicembre

La prima parte si può leggere qui

La seconda parte si può leggere qui

Ad accentuare quel senso d’isolamento, che rendeva difficile la vita del suo gruppo dirigente romano, interveniva poi un altro fattore da non trascurare: la sollecitazione da parte delle territoriali affinché il centro confederale le sostenesse nella loro azione di contrasto di alcuni degli orientamenti del governo gialloverde. Su questo versante, spiccava in particolare la questione degli investimenti infrastrutturali. Era nota a tutti l’avversione coltivata per anni e anni dal MoVimento 5Stelle nei confronti delle grandi opere, Tav e Terzo Valico in primis. I pentastellati si erano spesi senza risparmio proprio per l’opposizione alla Tav Torino-Lione in Valle di Susa, anche quando questa era andata allo scontro aperto con le forze dell’ordine a presidio dei cantieri. In cambio di questo sostegno, i 5Stelle avevano canalizzato un consenso diffuso verso i 5Stelle nell’area no-Tav e anche in quella antagonistica dei centri sociali di Torino (i cui portavoce siedono persino nel consiglio comunale del capoluogo piemontese e rientrano nella maggioranza della sindaca Chiara Appendino).

Appena costituito il governo, i no-Tav piemontesi sembravano ricevere un ulteriore avallo dalle parole del Ministro delle infrastrutture Danilo Toninelli, che comunicava subito la sua intenzione di sospendere i lavori della Torino-Lione in attesa dei risultati del lavoro di una commissione ministeriale, che, sulla base dell’analisi di costi e benefici, si sarebbe dovuta pronunciare sull’opportunità o meno di procedere al completamento della linea ferroviaria ad alta velocità. Ciò metteva immediatamente in allarme le associazioni locali degli imprenditori (con l’Unione Industriale di Torino in prima fila), da sempre fautrici dell’opera, ritenuta indispensabile per una moderna piattaforma logistica che non tagliasse fuori il Nord Ovest dagli assi principali di comunicazione. Di fronte all’atteggiamento del Ministro, palesemente riluttante a dar seguito ai lavori della Tav, e alla richiesta del presidente della Regione Piemonte di garantire subito il finanziamento ulteriore dei cantieri dell’opera, le territoriali del Nord indicevano per settembre un convegno a Torino a supporto della Tav, cui assicurava la sua partecipazione il presidente Boccia.

Era un’altra sfida al governo e alla sua anima grillina. Ma forse, sotto sotto, c’era anche la volontà di dividere l’esecutivo, la cui altra anima, quella leghista, s’era sempre schierata a favore delle grandi opere, soprattutto nel Nord. D’altronde, il presidente del Veneto, Luca Zaia, continuava a dar voce allo spirito localista della Lega, mentre invocava a sua volta il completamento di infrastrutture cospicue come la Pedemontana, anche in questo caso con l’argomento che era essenziale per l’economia del Nord-Est.

Probabilmente entro questa cornice, prendeva forma l’idea che Confindustria, per spezzare la cortina di isolamento che l’avvolgeva, potesse stringere un accordo con un partito come la Lega, che raccoglieva un consenso articolato e diffuso nel mondo delle aziende settentrionali. In fondo, si pensava che Matteo Salvini – peraltro spinto da valutazioni e calcoli esclusivamente politici – avrebbe potuto essere condizionato da sollecitazioni nordiste che affioravano nelle parole di Zaia come in quelle di alcuni rappresentanti territoriali dell’associazionismo imprenditoriale, quali per esempio Marco Bonometti, industriale bresciano di rilievo, il quale più volte si dirà stupito e irritato dalla piega presa dal governo col Decreto Dignità e, in seguito, col Documento di economia e finanza (Def), causa dell’esasperazione dei rapporti con l’Unione Europea.

È più che probabile che Boccia e i suoi collaboratori, riflettendo sulla specificità della collocazione della Lega (partito ancora espressione del Nord e dei suoi ceti produttivi, costretto a un’alleanza, che a molti pareva innaturale e incongrua, coi pentastellati, i quali hanno nel Mezzogiorno la base elettorale più grande), abbiano pensato che si potesse compiere un’apertura di credito nei confronti di Matteo Salvini, ricevendone per contraccambio una maggiore attenzione. Così come non è da escludere che a spingere Confindustria in questo senso fosse stato anche il sottosegretario alla Presidenza del consiglio Giancarlo Giorgetti, un uomo con una grande dimestichezza con la business community del Nord, anche lui interessato a riprendere i contatti col sistema confindustriale.

Peccato che Boccia desse rapidamente seguito a quest’apertura di dialogo con la Lega nella maniera più incauta. Parlando a un’assemblea di imprenditori veneti alla fine di settembre, dirà che Confindustria riponeva tutta la sua fiducia nella Lega e confidava nella sua azione politica. Scandita così, questa dichiarazione verrà presa né più né meno che come un inusuale endorsement nei riguardi di un partito il quale, fin lì, non aveva proprio fatto nulla di concreto per meritarsi il plauso di Confindustria. Ne nasceranno reazioni a catena, che si ripercuoteranno negativamente su Boccia.

La prima e la più indispettita sarà quella di Carlo Calenda, in procinto di avviare un giro di presentazioni per l’Italia del suo libro-manifesto Orizzonti selvaggi (Milano, Feltrinelli, 2018), in cui l’ex ministro voleva coinvolgere uomini del sistema associativo confindustriale, probabilmente per guadagnarsi qualche attestato di stima in vista della prossima campagna per le elezioni europee del maggio 2019. In uno dei suoi tweet veementi, Calenda se la prenderà senza mezzi termini contro il gesto così insolito di chi aveva stabilito di gettare Confindustria nell’arena politica promuovendo così una stagione di inedito collateralismo politico.

In realtà, Calenda forzava un po’ la situazione: era vero, Boccia aveva operato un affondo maldestro alla ricerca di un facile effetto di consenso perché parlava in Veneto, una regione in cui si poteva anche criticare il comportamento della Lega di governo a Roma, ma senza coltivare l’idea di staccarsene localmente (proprio in quei giorni un sondaggio indicava nel 48% il consenso potenziale dell’elettorato che la Lega manteneva nel Nord Est). Dunque, Boccia aveva più che altro puntato a una facile e immediata captatio benevolentiae, che però non avrebbe smosso Salvini dalle proprie posizioni, mentre avrebbe invece suscitato il risentimento di un centrosinistra indispettito per quello che giudicava un voltafaccia strumentale e spregiudicato. In fondo, Confindustria nella passata legislatura aveva portato a casa i benefici degli incentivi di Industria 4.0, per merito di Calenda, e quelli del Jobs Act grazie a Renzi. Ora pareva aver dimenticato quel passato recente.

A sua volta piccato sul vivo, Boccia reagiva assai male alla critica che gli aveva mosso Calenda e, con un altro tweet, gli replicava rivolgendogli pesanti apprezzamenti che coinvolgevano la sfera personale. L’ex ministro badasse a se stesso, gli diceva in sostanza il presidente di Confindustria, perché non era stato nemmeno capace di condurre in porto l’ipotesi di un incontro coi maggiorenti del Pd per fissare una pur minimale linea di accordo. Un rilievo simile non poteva che far precipitare lo scontro, trasformandolo in una pessima diatriba personale e contribuendo allo scadimento della qualità del confronto politico, che cessava di investire il terreno delle idee per diventare sterile polemica. Così, Boccia era riuscito ad alienarsi gli ambienti del Pd, senza per questo fare un passo di più nella considerazione dei leghisti o del governo gialloverde.

(3.continua)

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