Le guerre continuano in Ucraina e in Medio Oriente. Le già flebili speranze di pace sono adesso sovrastate dal pericolo di escalation. Ma l’attenzione dei governi occidentali si concentra su quanto bisogna spendere per la difesa. Difficile stabilire se la soglia del 5 per cento del PIL sia giusta o sbagliata. Di sicuro c’è solo che per alcuni paesi è una spesa sostenibile e per altri invece decisamente no. Il paradosso è che il dibattito va nella direzione giusta ma non sfiora neppure lontanamente il cuore del problema. Si sta cercando una decisione politica mentre la questione è soprattutto economica. A spiegare qual è veramente la situazione sono Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro con “Capitalismo di guerra. Perché viviamo già dentro un conflitto globale permanente (e come uscirne)” (Fuoriscena, 224 pagine, 17,50 euro).
Innanzi tutto, al ruolo del capitalismo rispetto agli eventi bellici va data un’accezione ben diversa da quella comunemente accreditata nel secolo scorso. Non esistono più o sono pressoché marginali gruppi industriali come erano i Krupp nel 1914 talmente potenti da spingere il proprio paese verso la guerra. Non c’è bisogno di condizionare le scelte politiche per ottenere buoni affari. Basta il clima di preoccupazione e paura ormai diffuso a livello planetario dopo l’aggressione russa all’Ucraina. Non a caso, nel 2023, le industrie di aerospazio e difesa hanno incrementato i propri ricavi dell’11 per cento. Ma se lo stereotipo del capitalista guerrafondaio appartiene al passato ciò non significa affatto che gli interessi economici siano meno determinanti e spesso più pericolosi di una volta.
’è un conflitto globale che si sviluppa su un numero quasi infinito di fronti. E anche se, nella maggior parte dei casi, almeno per il momento non si spara e non si bombarda, la lotta è senza esclusione di colpi. A partire dalla crisi finanziaria del 2008 si è verificata una vera e propria escalation di cui Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro ripercorrono efficacemente tutte le tappe. Grandi potenze antagoniste come Stati Uniti e Cina manovrano per aumentare la propria sicurezza economica. Di fatto è un eufemismo che sta per aumentare la propria potenza. Gli altri paesi e in primis l’Europa finiscono per essere coinvolti in questo vortice. Spesso soltanto per subirne le conseguenze negative. “Capitalismo di guerra” descrive tutti i fronti del conflitto globale: dalla corsa per il controllo delle nuove e preziose materie prime alla sovranità digitale fino alle guerre commerciali di cui i dazi decisi dall’amministrazione Trump sono il momento di maggiore ostilità. Gli anni della speranza in cui alle relazioni pacifiche contribuivano anche gli scambi economici sembrano ormai passati. E si rischia che di commercio si parli solo a proposito di armi. Ma con il retroscena che la soglia del 5 per cento non mette in evidenza. Con il riarmo c’è chi come USA, Francia e Germania pensa di arricchirsi vendendo aerei e carri armati. E chi invece s’impoverisce perché è costretto a comprare.