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Caro Luigi Di Maio, le spiego perché non è una buona idea la legge M5S sul salario minimo legale

"Porteremo la nostra legge per introdurre il salario minimo in Parlamento". Così ha scritto ieri il Movimento 5 Stelle capeggiato da Luigi Di Maio sul Blog delle Stelle. Ecco il commento dell'editorialista Giuliano Cazzola

 

Ogni volta che Giggino Di Maio apre bocca, folgorante dal soglio ministeriale, mi chiedo sempre se, nel corso delle sue peripezie universitarie incompiute, gli sia capitato di imbattersi, magari solo per caso, in un testo di diritto sindacale. Saprebbe, allora, che la contrattazione collettiva presenta delle caratteristiche peculiari in ciascun Paese, sedimentate dall’impostazione e dall’evoluzione che hanno accompagnato la formazione di un modello di relazioni industriali. Saprebbe altresì che – se in Italia non è previsto un salario minimo legale – ciò non dipende da fatto che non ci sia stato, prima, un governo giallo-verde a proporlo, nell’inerzia della sinistra politica e sindacale.

Se Di Maio fosse, invece, più attento scoprirebbe che il salario minimo legale è operante in quei Paesi che non dispongono di una contrattazione nazionale dei minimi tabellari, diversamente dall’Italia che ha ereditato – mutatis mutandis – questa caratteristica dal periodo corporativo quando i relativi accordi erano fonte primario del diritto al pari delle leggi. Il legislatore costituzionale cercò di salvaguardare, nell’art.39, l’efficacia erga omnes anche per il contratto di diritto comune purchè la sua negoziazione avvenisse nel rispetto di regole e procedure a garanzia della effettiva rappresentatività dei soggetti stipulanti.

Poi, come si sa, l’articolo è rimasto inapplicato. Ma nell’ordinamento giuridico non è venuto meno, sia pure seguendo un altro percorso, l’applicazione erga omnes dei minimi tabellari contenuti nei contratti nazionali di categoria.

È sempre necessario valutare la struttura delle relazioni industriali di ciascun paese, la funzione dei suoi istituti contrattuali e retributivi e gli orientamenti consolidati della giurisprudenza. Si scoprirebbe, così, che da noi il salario minimo esiste già anche se non si chiama così. E a prevederlo è, niente meno, un altro articolo della Costituzione ritenuto precettivo da una giurisprudenza consolidata pluridecennale. Nell’articolo 36 della Carta è sancito che il lavoratore ha diritto a una ‘’retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa’’.

Ma c’è di più: i giudici, chiamati a definire tale trattamento, hanno fatto costantemente riferimento alla retribuzione di base (i c.d. minimi tabellari) previsti dai contratti collettivi nazionali di categoria o di settore produttivo (il c.d. meccanismo di estensione indiretta del contratto nazionale).

Così, le retribuzioni individuate in rapporto alle tabelle fissate nei contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative,  costituiscono, in giudizio, il livello minimo vincolante per tutti i rapporti di lavoro di quella categoria o di quel settore. E in Italia esiste una rete contrattuale nazionale che garantisce un’ampia copertura (oltre l’80%) ai lavoratori.

In sostanza, con l’interpretazione giurisprudenziale dell’articolo 36 Cost. si è giunti, indirettamente, al riconoscimento di un salario minimo garantito. Il canone giurisprudenziale  di ‘’retribuzione minima’’ si è, dunque, storicamente consolidato, diventando di generale applicazione. Che senso avrebbe, allora, cimentarsi con un problema già risolto, almeno per i lavoratori dipendenti, finendo per abbassare il livello di tutela ora assicurato dalla contrattazione collettiva e dalla giurisprudenza, dal momento che, per definizione, il salario minimo legale non può che essere inferiore a quello contrattuale?

A parte le palesi ragioni di carattere economico, da noi ce ne sarebbe una in più. Se il salario legale coincidesse con quello tabellare previsto dai contratti, sarebbe esplicita la violazione dell’articolo 39 Cost. il quale dispone una particolare procedura, inattuata (e forse inattuabile) per definire contratti validi erga omnes.

Si dirà – ed è vero – che ci sono figure nuove che operano nella ‘’terra di nessuno’’ tra lavoro dipendente e attività autonoma e che tali figure non sono tutelate, in via di fatto, dalla contrattazione collettiva. Quanto a lavoratori c.d. parasubordinati il problema era stato già previsto dalla legge Fornero sul mercato del lavoro (l.n.92/2012) che introdusse anche per i collaboratori a progetto un compenso minimo da stabilire attraverso la contrattazione collettiva, in assenza della quale, esso non sarebbe potuto essere inferiore alle retribuzioni minime previste dai contratti nazionali di categoria applicati – nei settori di riferimento – alle figure professionali con un profilo analogo a quello del collaboratore a progetto.

Anche il famigerato Jobs Act (legge n.183 del 2014) conteneva una norma di delega in materia concepita come segue: “Iintroduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché, fino al loro superamento, ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale’’. Fu la sola delega a cui non fu data attuazione dal governo Renzi per la già citata contrarietà dei sindacati.

In sostanza, il salario o il compenso minimo, nel dibattito italiano, erano finalizzati a dare copertura a quei lavoratori sprovvisti di contrattazione collettiva, i cui contenuti, però, erano presi a riferimento per l’individuazione del trattamento minimo.

Tutto ciò premesso, aprendo un altro fronte insieme a quello del reddito di cittadinanza, il ministro Di Maio si sta incartando da solo. Quando è previsto (e lo è, in Europa, laddove non esiste una contrattazione nazionale dei minimi) il salario legale (un limite al di sotto del quale non può aversi remunerazione del lavoro), è stabilito ad un livello necessariamente inferiore a quello del salario effettivo (contrattato o no). In Francia lo smic fu fissato in 64 euro al giorno nel 2010; poi ci sono stati degli aggiornamenti rispetto all’inflazione. In Germania è pari a circa 9 euro l’ora.

Quale potrebbe essere un livello plausibile in Italia? Prima della loro cancellazione si pensava ai 10 euro (7,5 + 2,5 di oneri) dei voucher. Adesso diventa necessario misurarsi con quanto previsto per il reddito di cittadinanza. Partendo da un ragionamento molto semplice: se per un certo arco temporale è garantito – a determinate condizioni personali e di reddito – un assegno mensile di 780 euro (in attesa che le strutture pubbliche siano in grado di offrire un posto di lavoro adeguato); se il lavoratore ha il diritto di rifiutare un’offerta che sia retribuita a meno di 858 euro al mese (immaginiamo al netto), a quanto dovrebbe ammontare il salario minimo legale per essere appetibile a chi, per riscuoterlo, sarà chiesto anche di lavorare?

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